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 2013  settembre 22 Domenica calendario

IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA TUTELE E DIRITTI

La legge sull’omofobia è un vascello alla deriva da tre legislature. Adesso ha superato lo stretto della Camera, ma il Mar delle tempeste si trova al largo del Senato. Perché il voto di Montecitorio riflette il premione di maggioranza incassato dal Pd, mentre a Palazzo Madama i numeri funzionano a rovescio. E perché le questioni aperte sono ancora molte, in questa legge che introduce un’autonoma fattispecie di reato (l’omofobia), estendendo inoltre alle discriminazioni causate dall’orientamento sessuale un’aggravante già prevista per le discriminazioni razziali o religiose.
Ne ha parlato il Parlamento? Anche troppo. A leggerne i verbosissimi verbali, t’imbatti nello spettro di Voltaire, di Lacan, di Freud. Inciampi negli emendamenti dell’avverbio (sette: da «espressamente» a «inequivocabilmente»). Rimbalzi dall’elogio del telefono (Di Salvo: «A voi le associazioni gay non vi telefonano, fatevi delle domande») all’autoelogio del proprio partito (Romano). Vieni trafitto da un appello all’«algida razionalità» (Sisto), un altolà contro lo «psicoreato» (Pagano), un allarme sul matrimonio omosessuale (che c’entra?). Scopri che il testo originario s’inerpicava in avventurose distinzioni fra «identità di genere» e «ruolo di genere», attribuendo dignità legislativa alle emozioni. T’accorgi che il testo approvato crea viceversa una zona franca per le organizzazioni politiche, religiose, culturali: dunque non puoi discriminare i gay se sei da solo, puoi farlo quando siete in tanti. Infine ti rassegni all’incoerenza, d’altronde è ormai una bandiera nazionale. Quella di Scelta civica, che vuole restringere la legge Mancino del 1993 ma intanto ne allarga l’applicazione. O dei 5 Stelle, campioni del voto palese, che in questo caso chiedono lo scrutinio segreto.
Però al sodo le questioni sono due, e chiamano entrambe in causa un dubbio di legittimità costituzionale. Primo: l’articolo 21, che tutela ogni manifestazione del pensiero. Non è forse un reato d’opinione quello di cui dovrà rispondere chi offende i gay considerandoli deviati? Secondo: l’articolo 3, che ospita il principio d’eguaglianza. Perché mai sarebbe meno grave mollare un ceffone a tua zia eterosessuale anziché a tua cugina lesbica?
Sul primo punto la risposta non è troppo complicata. Non è vero che le parole siano sempre inoffensive: talvolta diventano proiettili. Come scrisse il giudice Holmes nella sua più celebre sentenza, la libertà d’espressione non può certo proteggere chi gridi senza motivo «al fuoco» in un teatro affollato, scatenando il panico. E incitare alla violenza contro i gay (perché è di questo che si tratta) significa commettere violenza. Una violenza più occulta, più vigliacca; ma non meno devastante. Semmai è il secondo punto a devastarci le meningi. Come si giustifica una tutela speciale per i gay? Risposta: perché sono soggetti deboli, perché scontano sulla loro pelle un pregiudizio. E allora perché non anche i barboni, le prostitute, i ragazzi down, gli anziani?
Ecco, qui s’affaccia un rebus senza soluzione. O meglio, la soluzione è cangiante nel tempo e nello spazio. Dipende dalla sensibilità sociale, e quest’ultima spesso dipende dalla cronaca nera. Ma la reazione in ultimo s’affida alle virtù terapeutiche del diritto, alla sua funzione pedagogica. Non a caso la diffamazione d’un omosessuale ora diventa procedibile d’ufficio. Insomma, per una volta in Italia c’è una legge che ha fiducia nella legge. Chissà se è ben riposta.
Michele Ainis