Franco Rollo, L’Unità 22/9/2013, 22 settembre 2013
LA MUMMIA D’ORO
INTEMPI IN CUI SI PARLA SPESSO DI REDDITOMETRO, LA NOTIZIA CHE QUALCUNO LO HA APPLICATO ALLE MUMMIE DELL’ANTICO EGITTO e agli imbalsamatori può far pensare ad una burla. Niente di tutto questo; parliamo invece di una pubblicazione uscita sull’autorevole rivista internazionale Journal of Archaeological Science.
Andrew D. Wade e Andrew J. Nelson, due antropologi dell’Università canadese del Western Ontario hanno esaminato circa 200 mummie incrociando le informazioni disponibili sulla posizione sociale dell’individuo con quelle sul tipo e la qualità del processo di imbalsamazione determinati attraverso radiografie convenzionali e Tac. Non si tratta, preciso subito, di individuare «finti poveri» ad oltre duemila anni di distanza, bensì di verificare l’attendibilità degli scritti dello storico greco Erodoto di Alicarnasso e di alcune tesi degli specialisti moderni. Nel libro II delle Storie Erodoto ci ha tramandato una famosa descrizione dei processi di imbalsamazione praticati in Egitto, dove soggiornò dal 449 al 430 avanti Cristo. Quello che è stato definito un reporter dell’antichità dice, in sintesi, che i cadaveri dei più ricchi (gli imbalsamatori si fanno pagare per le loro prestazioni) vengono sottoposti ad un trattamento chirurgico che inizia con la rimozione del cervello mediante uno strumento metallico «ferro ricurvo» introdotto nella scatola cranica attraverso le vie nasali. Viene poi inciso l’addome e rimossi i visceri. Il corpo viene poi posto a disidratarsi sotto sale (il natron) per settanta giorni. Per gli individui comuni vi è un trattamento più sbrigativo: il cervello non viene estratto, non si apre il ventre, ma si inietta olio di cedro nell’orifizio anale per corrodere i visceri («eviscerazione chimica»), poi si disidrata il corpo col natron. I cadaveri dei più poveri, infine, vengono messi sotto natron previo uno sbrigativo lavaggio intestinale ... e questo è tutto.
Le parole di Erodoto, con l’atmosfera da Morgue che riescono a evocare, hanno colpito e affascinato generazioni di studenti e di studiosi, oltre ad offrire spunti per famosi romanzi e film. È vero che oltre un secolo di ricerche scientifiche sulle mummie ha insegnato che Erodoto non può e non deve essere preso alla lettera. Questo fatto è ben noto; per esempio, quando lo storico greco parla di un ferro ricurvo usato per estrarre il cervello si deve intendere piuttosto uno strumento in rame. I settanta giorni sotto sale erano, verosimilmente, solo quaranta e così via. Ma si tratta, quasi sempre, di dettagli che non contrastano con la fondamentale attendibilità dello storico greco che, si sa, non scriveva per gli anatomopatologi. Wade e Nelson, invece, mettono in discussione l’intero modello erodoteo sostenendo, sulla base delle loro osservazioni che il secondo metodo, «eviscerazione chimica», non veniva mai applicato, ma solo il primo e il terzo. Secondo i due antropologi, chi aveva qualche mezzo ricorreva comunque al primo trattamento, risparmiando, caso mai, sulle rifiniture che consistevano principalmente nella resina, versata calda nella scatola cranica e nelle cavità corporee. La resina, che viene secreta da pini (Pinus pinea e Pinus halepensis), abeti (Abies cilicica) e larici (Picea orientalis) e in misura molto inferiore dal famoso cedro del libano (Cedrus libani), non veniva prodotta in Egitto, ma doveva essere importata dalla Siria e dall’Asia minore; aveva, verosimilmente, un costo elevato. E proprio la quantità di resina immessa nel cadavere avrebbe testimoniato lo stato sociale del defunto; tanto da far nascere il sospetto che si svuotasse la scatola cranica proprio per far posto alla resina e non perché l’intervento era necessario alla mummificazione. Opinione, questa, già espressa alcuni anni fa dal grande specialista Arthur C. Aufderheide, recentemente scomparso. Per quanto riguarda il clistere di olio di cedro, è la loro tesi, esso era difficilmente attuabile come metodo di massa in quanto avrebbe richiesto grandi quantità dell’olio, identificabile con la moderna trementina. Gli Egizi non possedevano i mezzi per ottenerla in maniera massiccia e in tutti i casi i costi di produzione sarebbero stati astronomici. Sembra, invece, che una forma di eviscerazione chimica venisse utilizzata nell’ambito del culto dei tori Apis e Bukkhis; lo suggerirebbero un papiro e il ritrovamento, fatto dagli archeologi, di strumenti atti a praticare enteroclismi di grandi dimensioni, decisamente troppo grandi per essere applicati a un essere umano.
Ed è proprio dal culto dei tori sacri che, secondo la ricostruzione di Wade e Nelson, Erodoto avrebbe preso l’idea, adattandola, per motivi non facilmente intuibili, al suo schema vagamente marxista di società antica. Comunque, prima di cedere alla tentazione di commentare che il reporter dell’antichità ha preso quella che in gergo si chiama una bufala, commento che verrebbe spontaneo, vista la sua apparente incapacità di discriminare fra umani e bovini, è necessario precisare che le critiche dei due antropologi canadesi si appuntano principalmente sui loro colleghi per quelli che essi considerano stereotipi egittologici. Per esempio, l’idea, diffusa, che la conservazione del cuore fosse un dogma per gli egizi. Falso, sostengono Wade e Nelson che, forti delle loro osservazioni, si avventurano ad ipotizzare che il cuore potesse essere asportato o lasciato al suo posto di proposito dagli imbalsamatori, per evidenziare ancor di più lo stato sociale dei defunti nell’oltretomba. Naturalmente, bisognerà aspettare la risposta della comunità internazionale dei mummiologi e degli egittologi a queste tesi provocatorie. La prudenza è d’obbligo; ancora non possiamo essere certi che in un futuro non assisteremo ad un ribaltamento di opinioni e non ci ritroveremo a dire: «Erodoto aveva ragione».