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 2013  settembre 23 Lunedì calendario

FAR EAST GIAPPONE - ITALIA L’ANALOGIA STA NELL’IVA DELLA DISCORDIA

Dopo quindici anni di deflazione, il Giappone vede la fine del tunnel. L’economia di Tokyo nel 2013 cresce del 3,8%, uno dei ritmi più sostenuti tra le potenze sviluppate. Da gennaio il mercato azionario è cresciuto del 40%, inducendo gli investitori a sostenere che il grande malato del capitalismo è in via di guarigione. Gli economisti giapponesi invece avvertono che c’è il rischio di «arrostire il maiale prima di averlo ingrassato». Sotto accusa, l’annunciato aumento delle tasse sulle vendite, corrispondenti all’Iva italiana. Il premier Shinzo Abe, guru del controverso miracolo ribattezzato Abenomics, sembra deciso a portare le imposte sui consumi dal 5 all’8%. Il governo del democratico Yoshihiko Noda, costretto alle dimissioni, si era impegnato ad aumentarle fino al 10% entro l’autunno 2015. Gli oppositori alla stangata sulle vendite ricordano che nel 1997, quando il Giappone alzò l’imposta per l’ultima volta spostandola dal 3 al 5%, l’economia precipitò nella recessione nel giro di poche settimane. Se crollano spese e consumi, osservano, Tokyo mancherà l’onda della ripresa scivolando nella palude della deflazione. Anche i liberisti più convinti, nemici del rigore per i conti pubblici, ammettono però che esistono buone ragioni per alzare ora l’Iva. Il debito nazionale nel 2013 ha battuto ogni record, superando quota 240%. E’ una cifra mai registrata in una grande economia di mercato: supera di più
del doppio la dimensione della terza economia del mondo, che è pari quasi a quelle di Germania e Francia messe assieme (4.800 miliardi di dollari). L’entità del debito è tale che Tokyo non può continuare ad ignorarla, mentre la crescita è agganciata. Se questo avvenisse, i mercati perderebbero la fiducia nella sostenibilità finanziaria dell’Abenomics, i tassi di interesse potrebbero aumentare e il Giappone, ad un passo dalla rinascita, non avrebbe la capacità di onorare i debiti. Esistono altre due ragioni che inducono Tokyo a puntare ora sull’aumento delle imposte sui consumi. Dopo il pesante pacchetto di stimolo pubblico, finanziato grazie al credito, il governo è chiamato a dare un segnale nella direzione del rigore, mostrando ai mercati la volontà di onorare gli obblighi assunti. La popolarità di Abe poi, secondo gli economisti, è un capitale da non sprecare. Il Giappone ha appena vinto la corsa per le Olimpiadi del 2020. Il previsto boom di immobili e infrastrutture, sommato alla ricostruzione del dopo-tsunami 2011, promette di riavvicinare il Paese ai fasti degli anni Ottanta. Secondo i rigoristi, considerato che per i prossimi tre anni non si prevedono elezioni, non esiste momento migliore per attuare riforme e misure che nessun altro premier potrebbe avere la forza di sostenere in futuro. Le grandi banche nipponiche concordano sul fatto che la soluzione migliore sarebbe aspettare un anno prima di aumentare le imposte sui consumi, così da riscuotere i dividendi della crescita. Vista però la patologia nazionale dell’eterno rinvio del risanamento, meglio il rischio di indebolire la ripresa, piuttosto che conservare i problemi per momenti peggiori. Non che l’aumento fiscale possa fare miracoli. L’aumento del 3% promette di produrre un maggior gettito pari a ottomila miliardi di yen, poco più di una goccia nell’oceano. Si tratta però di un’imposta sicura, facile da riscuotere, e potrebbe almeno finanziare un nuovo piano di stimolo da cinquemila miliardi di yen, annunciato da Abe, capace di assorbire circa due punti delle nuove imposte. Governo, nazione e lo stesso premier sono dunque combattuti tra le tentazione di lasciar correre il treno e quella di tirare un po’ il freno. La decisione è prevista per i primi di ottobre; e anche l’Europa guarda a Tokyo in vista di scelte molto simili.