Giampaolo Pansa, Libero 22/9/2013, 22 settembre 2013
QUANDO BERLUSCONI ERA SUA EMITTENZA
A Silvio Berlusconi piace il ritorno al passato? Allora torniamoci anche noi, per fargli un tantino di compagnia. La prima data cruciale è il martedì 23 novembre 1993. E il posto è Casalecchio di Reno, 34 mila abitanti, alle porte di Bologna. Qui sorgeva, e forse sorge ancora, un megamercato. Stava su una strada che sembrava scelta dal destino per far presagire una storia a metà fra lo spettacolo e la tragedia: via Marilyn Monroe. Vent’anni fa si chiamava Euromercato Shopville Gran Reno. Il proprietario era il Cavaliere o Sua Emittenza, come veniva chiamato allora. In arrivo a Casalecchio per inaugurare quel tempio del commercio, nato per vendere, vendere, vendere.
Due giorni prima, a Roma si era votato per il sindaco. Gianfranco Fini, gran capo del Msi, aveva raccolto 619 mila voti, il 35,8 per cento, un record per il suo partito.Ma l’altro candidato, il progressista Francesco Rutelli, era riuscito a fare meglio: 684 mila voti, il 39,6. Dunque si sarebbe andati al ballottaggio.
A Casalecchio Sua Emittenza doveva celebrare l’apertura del megamercato e poi tenere una conferenza stampa. Davanti alle telecamere dei tre tigì Fininvest, nel rispondere a un cronista, sdoganò Fini e anche se stesso. Del leader missino disse: «Se abitassi a Roma, al ballottaggio voterei Fini, perché rappresenta bene i valori del blocco moderato nei quali io credo: il libero mercato, la libera iniziativa, la libertà d’impresa, insomma il liberismo».
Poi aggiunse parole che svelavano il suo passaggio del Rubicone. Come un novello Cesare televisivo, ormai avviato alla conquista del potere politico, scandì: «Se le forze moderate non si unissero, allora dovrei assumermi le mie responsabilità. Non potrei non intervenire direttamente. Non potrei lasciare andare l’Italia su una strada sbagliata senza far nulla. Sarei costretto a mettere in campo la fiducia che molta gente ha in me!».
E infine, rivelando una delle arti magiche che tante volte avrebbe sfoderato, il vittimismo, offrì alla truppa dei cronisti una smorfia di sofferenza, recitata con la perizia di un attore consumato. Mimando una profonda tristezza, concluse: «Se nulla di nuovo avverrà, dovrò bere io questo amaro calice!».
Mentre annunciava che il dado era tratto, Silvio aveva compiuto da poco 57 anni. Non era più il trentenne smilzo degli esordi da imprenditore: capelli lunghi, baffetti aguzzi, un faccino troppo giovane che cercava di indurire mostrando un cipiglio volitivo. Ma aveva ancora un fisico asciutto, assai meno inquartato di quello odierno. In più, la maturità e il successo gli avevano accentuato l’approccio decisionista, il fiuto e la grande capacità di lavoro. Tutte qualità vitali nel capitano d’impresa che si prepara a percorrere sino in fondo il proprio itinerario esistenziale.
Infine il Berlusconi era un pignolo di ferro, al quale non sfuggiva nulla. Me ne resi conto di persona ben prima della serata di Casalecchio. Era 21 novembre 1977, un lunedì gelido per Milano. Dapprima un nevischio ghiacciato, poi neve a fiocchi, quindi improvvisi banchi di nebbia, bucati a stento dai fanali dei tram. Ero andato alla chiesa di Santa Maria delle Grazie per intervistare Amintore Fanfani, arrivato alla basilica circondata dai carabinieri dell’antiterrorismo. Qui alle 19 in punto doveva commemorare Giorgio La Pira e parlare del suo rapporto con il Pci.
Fanfani mi conosceva bene, per le infinite cattiverie che avevo scritto su di lui. Ma gli stavo simpatico per questo. E di certo mi avrebbe concesso l’intervista prima del suo discorso. Tuttavia un ostacolo esisteva. Era il portavoce del Professore: il butirroso Giampaolino Cresci. Eravamo quasi amici. E pensavo di sapere che tipo fosse. L’unica cosa che non sapevo era che fosse una colonna della Loggia P2 di Licio Gelli. Il nostro Giampaolino venerava Gelli, tanto da chiamarlo Mozart.
Per la verità, parlando del passato berlusconiano, è d’obbligo ricordare che anche il Cavaliere era un affiliato alla P2. Quando la faccenda venne a galla nel 1981, Silvio fece orecchie da mercante.Ereplicò allepolemiche con battute sublimi: «Entrando nella P2 pensavo al Risorgimento. Mai chiesto favori e mai ottenuti. In America mi sono iscritto persino all’Associazione per la difesa dell’Alce selvatico. Cosa volete che m’importi della massoneria?».
Ritornando alla sera del 1977, Cresci non voleva lasciarmi entrare nella sacrestia delle Grazie. Strillava: «Il Professore aspetta un visita ben più importante della tua!». In quel momento arrivò una berlina coperta di neve. Ne sbarcò il misterioso visitatore. Rimasi di stucco: era lui o non era lui? Ma sì che era lui! Il Berlusconi, azzimato, cerimonioso, però anche straripante grinta, pronto all’assalto e alla polemica.
Ne feci subito le spese. E per una colpa grave. Qualche settimana prima avevo pubblicato un libro sul potere e i giornali, «Comprati e venduti». Avevo parlato, sia pure in poche righe, anche del Berlusca come acquirente del 12 per cento del Giornale di Indro Montanelli che aveva bisogno di nuovi azionisti. Una citazione che Sua Emittenza non aveva per niente apprezzato, poiché gli davo del neo-palazzinaro.
Cresci fu costretto a presentarmi Berlusconi, perché ingombravo l’ingresso alle Grazie. E lui mi sistemò per le feste: «A pagina 311 del suo libro lei fa un grosso errore. Il palazzinaro è soltanto uno che approfitta della fame di case. Noi siamo tutt’altra cosa. Noi costruiamo quartieri modello, dove trionfa l’ecologia e la gente vive nel verde. Si corregga, Pansa, si corregga!». E subito s’infilò svelto in sacrestia, verso l’incontro con Fanfani.
In quel tempo nessuno, nemmeno io, scrisse dell’irruzione berlusconiana alle Grazie. Il Cavaliere non faceva notizia. E il Rubicone era ancora molto lontano. Tutto cambiò dopo il discorso di Casalecchio e la nascita di Forza Italia. Il 26 gennaio 1994 Silvio annunciò di aver fondato il nuovo partito. E rivelò di avere due alleati: la Lega di Umberto Bossi e il Msi di Fini. E la domenica 6 febbraio, al Palafiera di Roma, presentò agli elettori la nuova creatura.
C’ero anch’io al Palafiera, per l’Espresso di Claudio Rinaldi. E alle 12,35 pensai di avere un’allucinazione. Fu quando vidi Berlusconi balzare sul palco della convention inaugurale. E con il microfono elettronico stretto in entrambe le mani, dare inizio al suo primo show da leader politico.
Era abbacinante Sua Emittenza. Percorreva la lunga tribuna azzurra con falcate da ginnasta ben allenato. Sparava tutt’intorno sorrisi ammalianti da star televisiva. Sostava a stringere, magnanimo, qualcuna delle cento e cento mani che si protendevano verso di lui.
Berlusconi si offriva alla gente come il demiurgo della Seconda repubblica, l’uomo del nuovo miracolo italiano. A testimoniarlo erano gli applausi di gioia liberatoria, quasi feroce, di qualche migliaio di supporter. Gasati anche dall’inno del partito, trasmesso a tutto volume. Pure la nuova nomenklatura forzista era scattata in piedi per rendere onore al capo. Ritrovo sul taccuino una serie di nomi: Antonio Martino, Giuliano Urbani, Tiziana Parenti, Luigi Caligaris, Vittorio Dotti, Gianni Letta, Paolo Berlusconi. Cominciò in quella domenica la santificazione del Cavaliere. L’omaggio più sorprendente? Arrivò da Umberto Bossi. Il barbarico capo della Lega informò l’Italia di ciò che aveva scoperto: «Berlusconi non è un personaggio elitario, ha una radice popolana semplice. È rimasto più o meno il ragazzo che viveva in una casa di ringhiera».
Dal trionfo del 1994 sono trascorsi quasi vent’anni. Ritornare al passato può essere un tragico errore. Al Cavaliere conviene davvero correre questo rischio? Soltanto lui può rispondere a questa domanda delle domande.