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 2013  settembre 23 Lunedì calendario

MALEDETTO OSCAR


Oscar era grande, bello, ricco. Con la sua faccia intatta, poco da pugile. Era il golden boy della boxe, anzi el chico de oro. Un angelo con i guantoni. Colpiva, non picchiava. Un macho a suo modo: veniva dal Messico, passaporto americano, buon inglese. Ottime maniere, solido conto in banca, da multinazionale, secondo solo dietro a Michael Jordan. Non un disperato, non un maledetto, non un ex detenuto. Ma uno di quelli che ce l’hanno fatta. L’idolo dei latinos. Il più amato dopo Ali. Oscar sapeva stare in mezzo al ring, ma soprattutto in mezzo alla vita. Non era un disadattato come Tyson, che ignorava che il pesce non si mangia con il coltello («E allora perché lo mettono? » ) , non era a disagio in tv da Jay Leno, per questo finiva sulle copertine dei settimanali femminili. Tutti l’adoravano. Altro che pugile suonato, analfabeta, ignorante.
Sì, hombre, a nove anni aveva avuto il battesimo con l’alcol. Oscar De La Hoya sapeva come dirlo: la sua boxe dai guanti bianchi attirava gente e incassi come nessun altro: 696 milioni di dollari solo dalla payperview. Faceva il suo lavoro in maniera pulita, al sangue preferita il laser, poi via con il jet privato. Attorno a lui non c’era fango, ma solo profumo di successo. Si fidanzava con le ex Miss America, aveva la villa a San Bernardino, piena di statue azteche. Tutto gli riusciva bene: 16 anni di carriera, 10 titoli mondiali in sei categorie, 30 ko in 39 vittorie, un addio nel 2009 senza tristezze e incertezze. In cima ai Grammy Awards, genere latino, con Shakira e Christina Aguilera per rivali, c’era un suo disco in onore della mamma Cecilia morta di tumore al seno. E c’è la sua statua con le braccia alzate fuori dallo Staples Center di Los Angeles dove giocano i Lakers. Non fanno statue così a chi non sa vincere, non in America. I 200 milioni sul suo conto in banca assicuravano che non si sarebbe sgretolata. Arrivò anche un banchiere svizzero a dare consigli finanziari: scalate e proprietà immobiliari, acquisti di giornali e riviste (non da leggere, ma da possedere), squadra di calcio (Houston), scuderie di pugili. Oscar restava un moneymaker, anche fuori dal ring. Comprare, avere, essere, questo è il problema. Quattro mogli, cinque figli, gli ultimi due avuti dalla cantante rock ispanica Mirlie Corretjar. Non tutto coincideva, la gloria da qualche parte stava andando a male. Diversificava anche lei. S’inoltrava oltre i cancelli. Il guasto non fu più in un punto, si allargò, arrivò anche un’accusa di stupro. Il bello diventò un po’ brutto. «Non è un angelo» titolò il Los Angeles Times.
Due anni fa Oscar vomitò tutto fuori e entrò nella clinica Betty Ford a Malibu. «La mia vita è un casino. Non ho più la forza, sono schiavo di alcol e droghe, mi ammazzerei, ma nemmeno quello sono più capace di fare. Ho un mostro dentro di me e sono suo schiavo. La cocaina è recente. Bevo pesantemente. L’alcol mi fa sentire salvo, mi porta dove nessuno chiede o vuole niente da me, in quei momenti riesco anche a vedere e a riabbracciare mia madre». Per sei mesi aveva frequentato gli alcolisti anonimi, ma il rehab funzionava a singhiozzo. Aveva tradito molte volte la moglie. «Ma non come Tiger Woods». Anche le infedeltà hanno le loro classifiche. Tutto era compulsivo, anche il golf (43 giorni di seguito). «Volevo essere amato, accettato, uguale a come mi vedevano gli altri». Si sentiva scollato, fuori posto. Come quella volta che dopo aver battuto Julio Cesar Chavez era andato in parata nel suo ex quartiere, East Los Angeles, ghetto malfamato, e quelli gli avevano tirato uova marce. L’altro era più vero, meno damerino, più messicano di lui. Meglio attaccarsi alla bottiglia. Un paio di settimane fa Oscar è sparito. Ma ha avvisato: «Sono nei guai, torno in clinica, sogno di ricominciare». Le solite tre d: drink, drugs, depression. Ha solo 40 anni, troppo pochi per fare il derelitto. Ha imparato la dicotomia, sa cosa vuol dire metafora: «Il momento più brutto per un pugile è quando sei a terra e provi a rialzarti, anche se sai che la tua fine è segnata: hai perso ».
Il mondo della boxe si chiede: cosa ci sta capitando? In questo sport si combatteva fuori, non si moriva dentro. A metà mese Dean Powell, 47 anni, il più famoso cornerman inglese e anche organizzatore, ha detto agli amici «see you soon» e si è buttato sotto il treno alla stazione di South London. Billy Smith, 25 anni, pugile professionista, si è impiccato a luglio. Tre anni fa Earnie, suo fratello gemello, anche con i guantoni, l’aveva preceduto. L’ex campione del mondo, Ricky Hatton, alle prese con droghe e alcol, confessa che il suicidio lo tenta, lo sfidante Herol Graham ci ha già provato, il gigante Frank Bruno, ex avversario di Tyson, entra e esce dalla clinica psichiatrica. Darren Sutherland, 27 anni, campione olimpico irlandese si è appeso ad una corda del suo appartamento nel 2010, era appena passato professionista, e la stagione scorsa il peso medio Lewis Pinto, 24 anni, l’ha fatta finita dondolandosi da un albero del parco. Nel 2002 un altro uomo d’angolo, molto famoso, George Francis, si è fatto fuori. Ashley Sexton, ex sfidante al titolo europeo, ha raccontato di essere andato alla stazione per farla finita. «Ma non ce l’ho fatta». Tony Quigley, ex campione inglese dei supermedi, rivela che sue vie di uscita sono tre: «Impiccarmi, buttarmi da un ponte, ingoiare pillole. Ma sarei troppo solo anche in quel momento, a chi interesserebbe la mia morte? ». I lividi invisibili, sempre quelli.