Carlo Verdelli, la Repubblica 23/9/2013, 23 settembre 2013
SMIRACOLO A MILANO
“Smiracolo” a Milano, il posto dove succedevano le cose che poi l’Italia assorbiva. Adesso, anche se non da adesso, è la città dei miracoli al contrario. L’ultimo è la vendita dell’Inter, un fatto che non riguarda solo gli spalti di uno stadio.
In questi giorni, la città sembra la solita grande capitale europea. Moda, modelle e party per la settimana del made in Italy. Cartelloni ovunque per l’Expo 2015. Politici locali di un certo rango che già battagliano con Roma in vista di una candidatura italiana per l’Olimpiade 2024. Tutto vero e insieme tutto ingannevole. Sotto il tappeto rosso delle passerelle e degli eventi planetari, c’è la decadenza di Milano. Dopo 16 trofei, 18 anni di fede incrollabile e 5 mesi di trattative lancinanti per il suo cuore, Massimo Moratti ha affidato (come un figlio) l’Inter a un giovane indonesiano, Erik Thohir, per una cifra che oscilla tra i 250 e i 300 milioni, ingenti debiti della società compresi.
Non perché si era stancato del gioiello sentimentale di famiglia (fu il padre Angelo il primo a issare la bandiera nerazzurra sul mondo): il problema per Moratti è che, per la sua pazza Inter, ha speso quasi un miliardo e mezzo di euro, e sa di non avere più fondi sufficienti per competere con i top club internazionali. È quindi per amore e solo per amore che il rappresentante di una delle famiglia che contano a Milano rinuncia al suo sogno, e anche a una ragione di vita, imponendo al successore una clausola “per il bene dell’Inter e dei suoi tifosi” che ha un enorme valore romantico ma impatto zero sulle scelte che Thohir vorrà fare: il miliardario di Giacarta ha comprato il giocattolo, ne farà l’uso che crede.
In dialetto milanese si dice “ghe ne pù”, e generalmente si parla di soldi. Che certo mancano, persino nei quartieri alti, ma manca anche il “quid”, direbbe Berlusconi, che ha fatto grande Milano e che ora, svanito, la vede rimpicciolire su tanti fronti. Sarà un caso ma la città che ha dato il via alle avventure variamente tragiche e trionfali di Mussolini, Craxi e, l’altro ieri, proprio di Berlusconi e Bossi, nel governo di Enrico Letta (che è pisano), conta un solo ministro (Maurizio Lupi ai Trasporti) su 21. Né è forse un accidente che l’ “ideologia milanese” egemone, fotografata da Ernesto Galli della Loggia a fine luglio 1994, sia stata cancellata dalla geografia politica dalla Toscana di Renzi e Letta o dalla Liguria ribelle di Grillo. Certo non ha giovato alla causa di un ritorno alla supremazia meneghina l’ascesa a premier del milanesissimo bocconiano Mario Monti (anche se è di Varese) o la discesa a Roma di Angelo Scola, entrato papa in conclave e uscito com’era arrivato: cardinale in piazza Duomo. Anche l’insegna di “capitale morale” fatica a stare incisa sul gonfalone: gli scandali del San Raffaele, della giunta Formigoni (destra) e di quella Penati (sinistra), le olgettine del Cavaliere e via sputtanando hanno inferto colpi devastanti anche a questa presunta primazìa. Persino Mediobanca, ubicata in piazzetta Cuccia, in omaggio al suo mentore e a una lunga egemonia sul capitalismo italiano, ha chiuso un brutto bilancio (meno 180 milioni, contro un utile di 81 l’anno precedente) e sta cambiando strategia e missione: uscita dalle partecipazioni in banche e aziende, con conseguente e rilevante riduzione del peso strategico.
Milano perde spazi d’influenza, e insieme è costretta a privarsi anche di pezzi storici dell’argenteria di casa, come l’Inter in questi giorni o la sede del Corriere della sera e della Gazzetta dello Sport, via Solferino 28 e dintorni, prossima a passare al fondo americano Blackstone (ma pare che le redazioni resteranno dove sono, in affitto decennale, dopo aspra battaglia sindacale, in sintonia col nome della strada). A giugno è toccato alla pasticceria Cova, bottega storica nata vicino alla Scala nel 1817 e finita al colosso del lusso francese Lvmh (Louis Vuitton, Moet, Hennessy) per 33 milioni di euro. Dall’alto del suo trono, Giorgio Armani ha liquidato le polemiche seguite alla cessione (c’era in corsa anche Prada) con una battuta: «E via, stiamo parlando di cioccolatini, non di moda».
Non per contraddire il re, ma anche la moda, che al di là delle dislocazioni non solo meneghine dei marchi, ha avuto proprio Milano come culla e laboratorio del made in Italy, è sempre meno Italy: per chi la disegna (i direttori creativi delle varie linee), per dove si vendono le collezioni (sempre più global, sempre meno local), per il passaggio in mani straniere di tanti gioielli della corona: da Bulgari, terzo gioielliere al mondo, che ora batte bandiera francese (come Gucci, Loro Piana e Fendi), al classicissimo Valentino (Qatar), che pure è transitato per Milano ai tempi dell’Hdp di Maurizio Romiti. La lista è molto più lunga e, particolare non trascurabile, la regina Miuccia Prada è quotata sì ma ad Hong Kong. Made ex Italy. Dove ex, volendo, può stare anche per exit.
Milano fa gola, l’Italia buona fa gola. Negli ultimi anni ci siamo giocati Star e Parmalat, Gancia e Galbani, Peroni e San Pellegrino, Buitoni, Perugina e persino l’Orzo Bimbo. Più la Standa, “la casa dei milanesi” più che degli italiani, diventata Billa (Austria) e Fastweb, il nuovo che ha cominciato ad avanzare proprio sotto le strade di Milano ed è sbucato a Swisscom.
L’Italia del fare è stato uno slogan politico restato mestamente sulla carta. La Milano del fare era invece una realtà, ma sembra svuotata di energia: negli ultimi due anni, secondo la Camera di Commercio, hanno chiuso 2.615 ditte locali ma sono nate 2.356 attività aperte da stranieri. Per la prima volta sotto la Madonnina, il nome di battesimo più diffuso tra i titolari di piccole imprese è Mohamed (1.600), che scalza Giuseppe (1.383) e Marco (1.131). Non è affatto un male, ci mancherebbe, ma è chiaramente un segno, un altro.
Qualche giorno fa, sono stati denunciati cinque ragazzini che fuori dalla discoteca Just Cavalli Cafè hanno massacrato di botte un avvocato di 38 anni, colpevole di aver reagito a uno spintone. Tutti figli di famiglie più che bene, si vantano di essere dei “Sanka”, dal liceo privato San Carlo, e mirano a raccogliere l’eredità dei “sanbabilini” anni Ottanta. Quando c’è un vuoto, qualcosa lo riempie. Sta tornando la Milano da bere, le apparenze invece della sostanza. E non è un bel vedere.
L’Italia aveva tre capitali: Roma per Costituzione, Torino perché sede della più grande industria, la Fiat, e Milano, la città faro, il ponte con l’Europa. Ce ne sta rimanendo una sola di capitale, e solo perché è scritto così.