Filippo Ceccarelli, la Repubblica 23/9/2013, 23 settembre 2013
LA MALEDIZIONE DI VIA XX SETTEMBRE DOVE LE DIMISSIONI SONO UNA LIBERAZIONE
GOVERNARE l’economia è difficile e doloroso. Caspita, si dirà, che scoperta! E tuttavia gli assidui e anzi continuativi tormenti di Saccomanni, che pure è di scorza dura, e le reiterate sue minacce di dimissioni ad appena quattro mesi dall’insediamento costituiscono un piccolo grande record d’insofferenza. Per cui in linea di massima trascorreva almeno un anno prima che il titolare dell’Economia — che nella Prima Repubblica coincideva più o meno con il ministero del Tesoro — cominciasse a minacciare il “me ne vado”, mentre adesso la sensazione è che Saccomanni non solo faccia sul serio, ma veda sempre più nettamente nell’abbandono, almeno dal punto di vista umano, un’autentica e salutare, per non dire salvifica liberazione.
Vero è che la famosa scrivania realizzata dai maestri d’ascia biellesi e donata a Quintino Sella alla fine del suo terzo mandato nel palazzone di via XX settembre, è una di quelle che più attirano i fulmini. Un giorno Guido Carli, che con tribolazioni accentuate dall’età ebbe a occuparla su richiesta di Andreotti alla fine degli anni ‘80, pronunciò una specie di appello che dice abbastanza bene il grado di negatività che egli dovette fronteggiare, ma anche e soprattutto la specialissima aliquota di disperazione che dovette pesargli sul cuore: «Non prendetevi troppa cura per le mie condizioni — quasi implorava — Anch’io, come tutti, non mancherò di morire». Carli era un uomo brillante e anche spiritoso, ma il resoconto che di quell’incarico si legge nelle sue memorie, Cinquant’anni di vita italiana (a cura di Paolo Peluffo, Laterza, 1993) suona triste e sulla difensiva. Certo, per restare su un terreno magico, in questo entrava anche la circostanza, ovviamente non spiegabile su base scientifica, ma certo significativa sul terreno politico ed elettorale, che i democristiani, come teorizzato un giorno dal portavoce forlaniano Carra, ritenevano che il rigore — anche solo parlarne — portasse male.
In realtà, il sortilegio di via XX settembre opera secondo logiche, per così dire, passaggi di carriera ed esiti ancora più complicati. La traiettoria del povero Goria, ad esempio, che lì non fece male e proprio da quel trampolino giovanissimo spiccò il volo per Palazzo Chigi, indica una sorta di oscura dannazione che dal successo rovina inesorabilmente verso il disastro, prematuro per giunta, e in tutti i sensi. Ma anche ritornando con i piedi sulla dura terra della politica convenzionale e del potere che disdegna arcani presagi ed ermetici svolgimenti, occorre riconoscere l’assoluta solitudine, le ricorrenti mortificazioni e il personalissimo sconforto di tanti e tanti ministri del Tesoro e dell’Economia. Escluso Carlo Azeglio Ciampi, che pure ebbe i suoi guai, ma come si può leggere nel suo recente Contro scettici e disfattisti (a cura di Umberto Gentiloni Silveri, Laterza, 2013) vi fece fronte con la serenità del grandissimo incassatore, certo, però anche perché più di ogni altro ministro (ex presidente del Consiglio, va anche detto) aveva molto chiaro il senso della sua missione. Su quella fatale poltrona tutti gli altri, anche i migliori, furono sostanzialmente infelici, e tutto lascia pensare che quando ebbe termine quel loro impegno abbiano tirato il classico sospiro di sollievo, né brigarono per essere riconfermati. Basti ricordare le ingiurie a Nino Andreatta, che dopo il crac Ambrosiano si mise contro la Santa Sede e poi restò lontano dai ministeri per qualche anno. Come pure, riguardo allo stato della finanza pubblica, la memoria torna a un congresso del Psi in cui Giuliano Amato, che Craxi aveva imposto a quella amministrazione, con indubbia efficacia sceneggiò se stesso mentre cercava di svuotare il mare dotato di un secchiello.
La Seconda Repubblica non alleviò certo le pene, né le condizioni di lavoro dei ministri dell’Economia, sostituendo semmai gli antichi improperi con sbeffeggiamenti insieme ludici e crudeli, e valga qui rammentare che nel corso di una manifestazione del centrodestra vennero fatti sfilare dieci somari uno dei quali aveva appeso al collo un cartello che lo qualificava Tommaso Padoa Schioppa, che pure era un grande studioso e un ministro certamente onesto. Per il resto, Domenico Siniscalco presentò le sue dimissioni prima del tempo, anche se il mistero, per un uomo che aveva collaborato alla stesura del programma dell’Ulivo, è come mai fosse finito al posto di Giulio Tremonti, amico e rivale, in un governo berlusconiano ormai agli sgoccioli. Nel caso invece di Vittorio Grilli, che assai raramente si vide sorridere in foto durante il governo tecnico di Monti, le dimissioni non arrivarono per un pelo quando tutto stava sfasciandosi, invocate a proposito di vicende non molto commendevoli di ex mogli e consulenze Finmeccanica.
Anche il suddetto Tremonti, che nel 2001 fu ministro, poi dimissionario, e quindi ri-ministro e infine nel 2008 tri-ministro, ebbe i suoi controversi impiccetti legati a discutibili locazioni. Ma i suoi affanni a via XX settembre li trascendono senz’altro spalancando il ricordo a una vera e propria epopea, estesa anche a livello internazionale, che in modo tragico e grottesco ha segnato la fase terminale del berlusconismo di governo. In altre parole furono liti spaventose. Ma siccome in Italia la sciagura si fa buffa vale concludere con la scena di Berlusconi che a villa La Certosa, nel mostrare la sua collezione di piante, si fermava davanti a un cactus particolarmente contorto e spiegava di averlo ribattezzato: “Il Cervello di Tremonti”.