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 2013  settembre 22 Domenica calendario

ALBERTO ASOR ROSA

Da una trentina d’anni, o poco meno, Alberto Asor Rosa vive in una bella casa a ridosso del Vaticano, nei pressi di quelle mura sulle quali il Papa ricavò in tempi antichi un passaggio, o meglio un camminamento, che lo conduceva a Castel Sant’Angelo mettendolo al riparo dagli invasori. Oggi a invadere sono i turisti. Sciamano su Borgo Pio, e nei dintorni, entrano nei negozi di cianfrusaglie e di oggetti sacri, assaltano baretti e ristoranti. Al quinto piano – dove sediamo su due poltroncine di un salotto accogliente – giunge lo strazio di una fisarmonica: «È sempre così, intorno all’ora di pranzo, in questa stagione di tavoli all’aperto e di canzoni atroci. Mi rassegno, che debbo fare? Poi, per fortuna, la sera tutto si attenua, si spegne, si svuota. Qui la movida non è ancora arrivata», dice il professore che domani compirà 80 anni. E lo dice con la preoccupazione, e i dovuti scongiuri mentali, di dover assistere a una nuova invasione. Sul tavolo scorgo Racconti dell’errore, il suo ultimo libro: «Sei storie su altrettanti personaggi ai quali le cose sono andate diversamente da come immaginavano che dovessero andare», precisa come se avesse un termometro fra le labbra che misura la temperatura delle parole.
E a lei, come sono andate le cose?
«Non mi lamento. A parte qualche acciacco, sono qui».
Pensa di aver realizzato ciò che si prefiggeva?
«Diciamo che ho navigato sempre nello stesso mare, anche se mutavano le correnti e, a volte, necessitavano imbarcazioni diverse. Certo, non mi sarei aspettato che alla fine della mia vita sarei passato da storico e critico della letteratura a narratore».
Una sorpresa perché?
«È come saltare dall’altra parte della barricata».
In un certo senso un tradimento?
«No, una trasformazione. E poi, non immaginavo che non fare più il professore fosse così bello».
E la politica?
«La politica cosa?».
È ancora bella?
«È soprattutto mediocre, come tutto ciò che oggi siamo costretti a subire. Per me la politica fu un impegno ineludibile, ma filtrata dalla mia vocazione intellettuale e culturale».
Vocazione, all’inizio, estrema e radicale.
«Neanche tanto. E comunque erano altri tempi. Si discuteva, anche accesamente, in seno alla sinistra e in particolare al Pci. C’era un nuovo soggetto politico, la classe operaia, che era difficile includere nello schema ideologico del Pci di quegli anni. Segnalai, sommessamente, la presenza di questo fatto anche nell’ambito della letteratura, invitando i responsabili a ripensare certe coordinate culturali».
Quando dice "schema ideologico" allude da un lato, a Gramsci e allo storicismo allora imperantee dall’altro alle sue conseguenze, cioè al populismo e al neorealismo letterario?
«Alludo a tutto questo. E al fatto che la gran parte degli scrittori e dei poeti sembrava scontare l’assenza di una forte, modernae avanzata cultura borghese. Quando uscì nel 1965 Scrittori e popolo, Muscetta e Salinari – depositari nel partito dell’idea sacra di cosa dovesse essere la letteratura italiana – mi fecero a fette».
È vero che qualche anno dopo Carlo Muscetta provò a censurare un suo lavoro per una collana che egli dirigeva?
«È un’altra storia che, tra l’altro, mise a rischio la mia carriera accademica. Avevo scritto un ampio saggio sulla cultura della Controriforma, sottolineando l’importante novità rappresentata dalla cultura dei gesuiti. Muscetta lo lesse e si rifiutò di pubblicare il volume, che avrebbe contenuto il mio saggio, dedicato al Seicento. Sembrava un rullo compressore. Si creò una situazione assurda. Tanto più che nel frattempo era uscito il volume sul Settecento. Alla fine Vito Laterza, l’editore, trovò la soluzione. Carlo, gli disse, tu scrivi una prefazione in cui dici che non sei d’accordo. E fu così che il volume venne dato alle stampe».
Accennava alla carriera accademica. Come è stata?
«Lunga. Per dieci anni ho insegnato nelle scuole medie superiori, prima a Tivoli e poi a Roma. E per 40 anni all’università. Credo di essermi divertito».
Divertito? Io ricordo che sui muri dell’università di Roma c’era scritto: “Asor Rosa sei un palindromo”.
«E mica c’era scritto "sei un cretino". Eravamo alla fine degli anni Sessanta. Un gruppo studentesco, per essere precisi, fece scendere dal tetto del rettorato lo striscione con sopra scritta quella frase. Il palindromo, come sa, è quando uno legge la stessa parola o frase anche al contrario. Perciò si voleva intendere che se da una parte ero un "rivoluzionario", dall’altra mi rifiutavo di dare il 30 garantito a tutti».
Ma forse c’era anche il fatto che la consideravano un "barone" di sinistra. Si è mai riconosciuto nell’immagine di uomo di potere?
«Non la metterei in termini così diretti. Diciamo che in caso di necessità ho usato nei riguardi degli altri le stesse armi di potere che gli altri volevano usare nei miei confronti. Me la sono cavata abbastanza bene. E poi, sa, quando si sta aggrappati alla "zattera della Medusa", e l’Università è stata anche questo, il primo pensiero è sopravvivere».
Pensavo che fosse insegnare.
«Certo, ma se non vivi non puoi farlo».
Nel suo mondo sembra prevalere sempre il conflitto.
«Oggi molto meno. E comunque non ho mai rinunciato nella mia esistenza a praticare l’arte della mediazione. Ho suscitato un certo scandalo quando di recente mi sono definito "un radicale moderato"».
Anche Montale si scandalizzò per le sue posizioni sulla letteratura e la poesia e le dedicò dei versi molto ironici.
«Ah, li ricordo perfettamente: "Asor nome gentile, il suo retrogrado, è il più bel fiore...". Ce l’aveva con me per il fatto, palesemente infondato, che io subordinavo il giudizio sulla forma poetica a valutazioni di tipo ideologico. In quegli anni pubblicavo un saggio su Thomas Mann che andava nella direzione esattamente opposta. Un paio d’anni dopo incontrai casualmente Montale e gli chiesi perché aveva scritto quella poesia. Lui mi guardò fisso e disse "non lo so più"».
L’aveva dimenticato?
«L’elemento scatenante rimase chiuso nella sua fortezza mentale».
Lei, invece, ha dato l’impressione in questi anni di volerla aprire la sua "fortezza" .
«Cosa intende?».
Il teorico Asor Rosa ha lasciato il posto al biografo che si racconta. Cos’è: l’intellettuale di sinistra che ha fallito e ripiega su se stesso?
«Non riesco a pensare che le mie delusioni politiche e civili siano un fallimento dell’intero sistema. Mi ripugnerebbe il pensiero di lasciare ai miei nipoti un mondo segnato dalla catastrofe».
Intende dire che la catastrofe è solo personale?
«Viviamo anche dentro a delle piccole catastrofi personali. In questo momento il senso che mi muove verso l’esterno non è dettato né dalla prudenza né dall’opportunismo, ma dal pudore».
Il pudore o la paura di sbagliare?
«Se ci si misura con l’esterno c’è sempre la possibilità dell’errore. Ma non può essere – non deve essere necessariamente – un impedimento. Semmai, la paura per me è stata un sentimento diverso».
Ossia?
«Non so come spiegarlo: un’esperienza fisica che aveva a che fare con il buio. Parlo degli anni della guerra. C’era l’oscuramento legato ai bombardamenti. Ero un bambino e avevo un reale terrore del buio. Ricordo che una sera non riuscivo ad avanzare nel corridoio buio di casa. E fu allora che mia madre energicamente mi spinse. Rompendo così il senso di smarrimento che mi attanagliava. È una sensazione che ho superato lentamente, ancora oggi il buio mi sembra una situazione poco affidabile».
Sono sempre le madri che ci mettono in salvo?
«O almeno ci provano. A me quella spinta corrispose all’altra che sempre mia madre mi diede per farmi valere nelle questioni scolastiche».
Doveva primeggiare?
«Sì e ho speso lacrime e sangue. Per dieci anni non ho fatto altro che pensare a questo. Solo quando varcai la soglia della facoltà di lettere sentii che non avevo più voglia di gareggiare. Nascevano le prime amicizie intellettuali. Sostituii l’aggressività e la competizione con la stima».
E prima non aveva amici?
«Ne ho avuti anche al liceo. Ci svagavamo, andavamo a ballare, e talvolta anche in qualche casa di tolleranza. Erano relazioni pratiche senza ulteriori coinvolgimenti».
Ma non le accadeva di innamorarsi?
«Tra il liceo e l’università si delinearono le prime amicizie femminili. Non mi innamoravo con facilità, ma con trasporto suicida sì. Voglio dire che l’elemento femminile rovesciava le basi del mio sistema di vita. L’amore mi destabilizzava».
Meglio la solitudine?
«No, anche se l’ho vissuta. Ero figlio unico di due genitori in profondo disaccordo tra loro. E a me, in quella situazione, non capitava spesso di rompere la mia solitudine».
A proposito di percorsi interiori lei ha dedicato un intero libro a suo padre e sua madre. La scrittura esorcizza il dolore?
«No, è stato soprattutto un gesto di liberazione. Per molto tempo ho avvertito un debito nei loro confronti. E scrivere di loro ha significato pagarlo. Da allora, ho un rapporto più autentico e libero con la loro memoria».
È vero che da giovane ebbe una crisi mistica?
«Sono stato molto credente fino a 15 anni. Andavo spesso in Chiesa e sentivo forte un rapporto diretto con Dio. Invece di odiare il mondo pensavo che fosse più bello amarlo».
E dopo, che accadde?
«Persi la fede. Compresi che possono esistere altri momenti – più ragionevoli e adottabili – rispetto a quelli suggestivi proposti dalla religione. Oltretutto, i miei 15 anni coincisero con il 1948. Quell’anno la Chiesa scatenò una grande campagna contro il comunismo e i suoi simpatizzanti».
E lei si trasferì dalla Chiesa cattolica a quella comunista?
«Con l’altra "chiesa" ho avuto poco a che fare. Mi iscrissi alla Federazione giovanile comunista nel 1952, ne uscii nel 1956 dopo i fatti di Ungheria».
Giulio Einaudi, anni dopo, l’avrebbe soprannominata "Asor Rosé".
«Mi giunse voce, visto che non la pronunciò mai in mia presenza. Con Einaudi ebbi un rapporto singolare. Fui introdotto in casa editrice da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti. Arrivando dalla provincia romanesca, nelle lambiccate stanze torinesi di via Umberto Biancamano, gli dovetti sembrare un alieno. Poi diventammo molto amici e negli ultimi anni in maniera profonda. Era un uomo straordinario. Apparteneva a quell’alta borghesia piemontese che pensava di poter fare qualunque cosa gli passasse per la testa».
Italo Calvino è stato, forse, lo scrittore più rappresentativo di quella casa editrice. E vorrei che concludessimo questa chiacchierata tornando alla letteratura, dalla quale tanti anni fa lei era partito con Pasolini e l’ha conclusa con Calvino. Sono stati i due modelli letterari dell’Italia della seconda metà del secolo scorso?
«Di più: due modelli inconciliabili. Qualsiasi operazione critica non può prescindere dalla loro presenza. Personalmente ho ritenuto che Pasolini fosse eccessivamente impregnato del fattore sensoriale: senso e sesso, ingredienti per me letterariamente inaccettabili. Mentre in Calvino ho visto prevalere la ragione e la fantasia, che è la combinazione con cui io nel secondo Novecento ho intercettato le cose narrativamente più accettabili, alcune delle quali straordinarie».
Si sente ancora un uomo del Novecento?
«Totalmente. A me è parso un secolo straordinario. Pieno di potenzialità e di promesse. E, quasi nella stessa misura, di smentitee disillusioni. Comunque, attraversato da una vitalità che rischia di non avere questo secolo in cui finirò i miei giorni».
Lo dice con una certa rassegnazione.
«Ma no, semplicemente vorrei che mi fosse risparmiato il degrado, la prepotenza e l’ottusità. Non credevo che sarebbero stati gli ingredienti principali di questa nuova alba».