Marco Cattaneo, la Repubblica 22/9/2013, 22 settembre 2013
FINE DELL’EVOLUZIONE?
Penso che gli esseri umani abbiano smesso di evolversi». Buttata lì così, sembra una provocazione da non prendere troppo sul serio. Ma se la provocazione arriva per bocca del naturalista e decano della divulgazione scientifica in materia di biologia evoluzionistica, Sir David Attenborough, ha tutto un altro sapore. E, come è prevedibile, solleva un vespaio. «Se la selezione naturale», ha dichiarato Attenborough in un’intervista a Radio Times, «è il principale meccanismo dell’evoluzione, allora noi abbiamo fermato la selezione naturale. Lo abbiamo fatto da quando siamo in grado di crescere il 95-99 per cento dei nostri figli fino all’età riproduttiva. Siamo la sola specie che abbia messo un freno alla selezione naturale, di propria volontà».
Non è la prima volta che l’idea della fine dell’evoluzione umana si affaccia nel dibattito scientifico, ma fino a oggi era rimasta confinata agli esperti. Già qualche anno fa c’era chi sosteneva che la nostra evoluzione si fosse fermata con la colonizzazione del pianeta, ovvero quando le popolazioni umane avevano raggiunto i quattro angoli della Terra; in quella fase avevano mantenuto relazioni a sufficienza perché non si verificasse più l’isolamento che è una condizione essenziale per la nascita di nuove specie. Ma l’evoluzione non è solo speciazione, per usare un termine tecnico. Tanto che Henry Harpending e John Hawks, dell’Università del Wisconsin, hanno rilevato che da 5.000 anni a questa parte si è modificato almeno il 7 per cento dei nostri geni. Mentre Parvis Sabeti, ad Harvard, ha scoperto prove di cambiamenti recenti del nostro patrimonio genetico, che hanno aumentato le possibilità di sopravvivenza e riproduzione degli individui.
Secondo Peter Ward, paleontologo e astrobiologo dell’Università di Washington a Seattle, la velocità della nostra evoluzione potrebbe essere addirittura aumentata, negli ultimi 10.000 anni. E la causa di questa accelerazione sarebbe la diversità degli ecosistemi che abbiamo colonizzato, insieme ai cambiamenti delle condizioni di vita portati prima dall’agricoltura e poi dall’urbanizzazione. Nell’ultimo secolo, poi, c’è stato un ulteriore cambiamento: con l’aumento dei flussi migratori, molte popolazioni che vivevano relativamente isolate sono entrate in contatto con gli altri gruppi. «Mai prima d’ora», sostiene Ward, «il pool genico umano ha affrontato un rimescolamento tanto vasto tra popolazioni locali che erano rimaste separate».
Attenborough sembra invece aver fatto sua la tesi di Steve Jones, genetista gallese del prestigioso University College di Londra: «Per la nostra specie, le cose hanno smesso di migliorare o di peggiorare», sostiene Jones. Una resistenza ereditaria a malattie come l’Hiv potrebbe ancora conferire un vantaggio per la sopravvivenza, ma oggi è la cultura, non l’eredità genetica, il fattore che decide se i singoli vivono o muoiono. Per questo, concorda Attenborough, «fermare la selezione naturale non è poi tanto importante o deprimente, come potrebbe sembrare, perché il nostro processo evolutivo è culturale».
D’altra parte, c’è anche chi la vede in maniera ancora più negativa. Secondo un altro punto di vista, infatti, l’evoluzione genetica continua, ma in direzione opposta. La vita sedentaria, con l’indebolimento dell’apparato scheletrico, per esempio, è uno dei fattori che potrebbero renderci meno adatti alla sopravvivenza, in senso darwiniano. Ma ci sono altri fenomeni che potrebbero favorire un’evoluzione al contrario: per esempio molti di coloro che frequentano università e dottorati ritardano la procreazione, mentre i loro coetanei non laureati fanno figli prima. Qualcuno sostiene dunque – con un’equazione un po’ ardita – che se i genitori meno intelligenti facessero più figli, allora l’intelligenza sarebbe diventata uno svantaggio darwiniano, e la selezione naturale potrebbe sfavorirla. Ma in questo caso, anche se contro di noi, la selezione continuerebbe implacabile la sua azione.
Il partito che respinge la tesi di Attenborough è decisamente il più nutrito. Tra i più agguerriti c’è Ian Rickard, antropologo evolutivo dell’Università di Durham, che dal sito del Guardian non ha esitato nemmeno un giorno a bocciare senza mezzi termini l’ipotesi di Attenborough. «Così avremmo “messo un freno” alla selezione naturale?», si chiede. E risponde: «La risposta breve è “no”». Ma poi argomenta, precisando che non c’è nessuna specie sul pianeta che si sia liberata delle forze della natura, né si vede come sarebbe possibile. Riconosce ad Attenborough e a Jones che per l’azione della selezione naturale è necessario che ci sia variazione. Che alcuni individui prosperino più di altri. Ma anche se tutti sopravvivessimo fino alla stessa età, la variazione ci sarebbe comunque. «La selezione naturale», chiosa, «non si cura della sopravvivenza». E snocciola tutta una serie di esempi in cui la selezione naturale ha esercitato la sua forza occulta in tempi anche recenti, da punto di vista evolutivo. Per concludere: «La lezione che dobbiamo trarre da questa diversità globale (delle popolazioni umane, N.d.r.) non è che gli esseri umani divergeranno in specie differenti; dobbiamo invece riconoscere che l’impredicibilità delle cose umane significa che ciò che sappiamo ora della selezione naturale in atto è completamente inutile a lungo termine». Considerazione condivisa da Catherine Woods, dell’Università di New York, secondo la quale l’umanità sta certamente evolvendo, ma «non necessariamente come ci aspettiamo».
Ma c’è anche una nuova scuola di pensiero, per quanto minoritaria, che vede in prima fila Daniel McShea e Robert Brandon, della Duke University, secondo la quale le strutture complesse degli organismi potrebbero essersi evolute soprattutto grazie alle mutazioni casuali, anche senza il soccorso della selezione darwiniana. Insomma, una cosa è certa. Se pure l’evoluzione umana per selezione naturale si fosse fermata, di sicuro il dibattito continuerà a lungo a infiammare la comunità scientifica.