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 2013  settembre 22 Domenica calendario

EUROPA IRRILEVANTE NELLA SFIDA TRA POTENZE

Vi è una duplice ottica attraverso cui seguire le vicende della Siria. La prima, quella più urgente, è la necessità di porre fine alle tragedie umane del Paese e di evitare che queste si moltiplichino attraverso una guerra di cui è impossibile prevedere le dimensioni. La seconda è quella di capire le conseguenze che gli avvenimenti in corso porteranno agli equilibri futuri della politica mondiale.
Sul primo punto la soddisfazione per il dialogo tra le grandi potenze è quasi unanime. Una grande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale pensa infatti che un altro conflitto nel mondo arabo non avrebbe alcuna conseguenza positiva. Oltre alle tragedie umane immediate, esso produrrebbe infatti anni di lotte fratricide. Naturalmente il sospiro di sollievo è ancora appeso a un filo perché in Siria non vi è tregua, perché nessun accordo è stato ancora siglato e perché vi è perfino incertezza sulla possibilità che un eventuale accordo possa essere rispettato dalle forze in campo.
Tuttavia la diplomazia è al lavoro e ormai sia Obama che Putin hanno gettato sul tavolo delle trattative tutto il loro peso politico e tutto il proprio prestigio personale. Spero quindi, e credo, che un accordo ci sarà, anche se ci vorrà tempo e fatica per metterlo in atto. Mi vorrei tuttavia soffermare un attimo sulle conseguenze delle vicende siriane nei confronti degli equilibri politici internazionali che si giocano nell’area tra Mediterraneo all’Afghanistan. Dato che, mentre riguardo al lontano futuro tutti sono attenti a quello che avverrà intorno all’oceano Pacifico, in effetti fino ad ora gli equilibri mondiali si sono giocati nell’area che va dal Mediterraneo all’Afghanistan. La grande partita si è aperta all’inizio degli anni Settanta quando gli Stati Uniti hanno sostituito il padrinaggio sovietico nei confronti dell’Egitto e successivamente, approfittando anche della trappola in cui l’Unione Sovietica si era ficcata in Afghanistan, sono via via diventati i dominatori assoluti del più importante scacchiere della politica mondiale. A questo punto, commettendo un imperdonabile peccato di presunzione, hanno pensato di porre il definitivo sigillo del loro potere con la guerra in Iraq e con un crescente impegno nel groviglio afgano. La grande potenza americana si è di conseguenza trovata di fronte a una sfida che ha drenato enormi risorse umane e materiali, che non ha portato nè pace nè democrazia in Iraq e in Afghanistan e che ha, in tutto o in parte, condotto questi due Paesi nell’orbita del nemico numero uno, cioè l’Iran. Queste disastrose esperienze hanno spinto l’opinione pubblica americana a schierarsi, nell’assoluta maggioranza, contro l’apertura di un conflitto in Siria. Obama, messo in difficoltà di fronte alla sua decisione di intervento, si è prima rifugiato nella chiamata di corresponsabilità del Senato e del Congresso e poi ha dovuto accettare la proposta russa di sostituire il dialogo all’offensiva militare. Tutto questo non significa affatto che gli Stati Uniti non rimangano la potenza militare dominante nel mondo. I rapporti di forza militari non sono infatti finora cambiati (lo saranno con la crescita cinese?) ma i cittadini americani non sono più disposti a esercitare il ruolo di gendarmi del pianeta. In poche parole essi pongono e porranno limiti sempre più stretti all’esercizio della forza. La vicenda siriana ci insegna perciò che, nella realtà, gli equilibri strategici mondiali sono profondamente mutati. Anche se la potenza militare prevalente è ancora nelle mani di un solo Paese, il suo esercizio è di fatto diventato multipolare. Esso non è più esclusivo possesso degli Stati Uniti. Quando Putin si è accorto che tutto questo portava a una paralisi dell’azione americana, ne ha subito approfittato aprendo un tavolo di negoziazione che offre tuttavia ad Obama una duplice, anche se parziale, via d’uscita. Con le trattative egli evita infatti una difficile sfida con il Parlamento e porta a casa una vittoria di principio nella lotta per la messa al bando dell’uso delle armi chimiche, contro le quali si era tanto impegnato. I negoziati diplomatici hanno successo se nessuno perde la faccia. Per questo motivo sono abbastanza ottimista sull’esito del tavolo siriano, anche se è evidente il vantaggio tattico e strategico della Russia che, dopo tanti anni, ritorna protagonista in uno dei punti più caldi e delicati della politica mondiale. Mi accorgo che, quasi al termine di queste mie riflessioni, non ho mai nominato l’Europa. Lo avrei fatto volentieri ma le sue divisioni la rendono irrilevante in questa come nelle altre grandi vicende internazionali. Se il suo processo di unificazione non farà progressi, questa irrilevanza andrà avanti fino alla sua totale marginalizzazione non solo nei confronti degli Stati Uniti ma anche di un aese come la Russia che, pur essendo ancora una grande potenza, non possiede una forza economica paragonabile a quella europea. Molti osservatori sperano che le elezioni tedesche (che si stanno oggi svolgendo) possano segnare l’inizio di una nuova politica. Io credo che le cose cambieranno ben poco e che anche una diversa coalizione di governo non darà, in tempi prevedibili, una nuova spinta al progetto europeo. Non solo perché nella campagna elettorale tedesca non si è quasi mai parlato di Europa, non solo perché è probabile che entri nel Bundestag un partito anti-euro, ma perché in questi anni è cresciuta nell’opinione pubblica germanica la convinzione che ogni più stretto legame tra i Paesi dell’Unione Europea sia un regalo a noi meridionali e non un grande rafforzamento della stessa Germania. In poche parole molti tedeschi pensano oggi che la Germania possa meglio affrontare da sola la globalizzazione. Non è certo il risultato di una tornata elettorale senza grandi prevedibili sorprese che può preparare la soluzione di questo problema da cui tanto dipende il nostro futuro. Per cambiare le cose ci vorrà ancora molto tempo e molta pazienza.