Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 21/9/2013, 21 settembre 2013
PER L’ILVA DI TARANTO UN FUTURO A METANO
Salvare Taranto con lo shale gas. La dirigenza e i tecnici dell’Ilva in queste settimane stanno lavorando duramente per modificare, in misura radicale e profonda, l’intero processo produttivo dell’acciaieria. Non più "nutrendolo" con il carbone. Ma adoperando le risorse fossili gassose. Una ipotesi ancora sperimentale, tutta da verificare. Ma che potrebbe trasformare Taranto in un gigantesco laboratorio della nuova modernità industriale ed energetica.
Le sperimentazioni top secret in corso all’Ilva sono state in parte rivelate giovedi mattina dal subcommissario Edo Ronchi ai consiglieri comunali membri della Commissione ambiente del Comune di Taranto e, ieri, sono state confermate al Sole-24 Ore da fonti ministeriali. Questa metamorfosi produttiva e tecnologica – qualora le prove in corso in queste settimane dessero esiti positivi – rimodulerebbe il volto di Taranto, città drammaticamente sospesa fra lavoro e ambiente, e ridisegnerebbe il profilo di tutta la siderurgia europea.
Andiamo con ordine. Come materia prima non ci sarebbe più il benedetto-maledetto carbone, ma degli idrocarburi gassosi. Primo effetto: diventerebbero inutili le cokerie, che costituiscono la parte dell’acciaieria più inquinante. Secondo effetto: si ridurrebbero le masse enormi di materia prima che oggi incombono sulla città.
Pensate alle colline di carbon fossile che si trovano in prossimità del Rione Tamburi, i cui abitanti si ritrovano i volti ricoperti e i polmoni pieni di polveri scure ogni volta che si alza il vento dal mare. Stando ad indiscrezioni di fonte ministeriale, ieri sarebbe attraccata al porto di Taranto una nave, proveniente dal Golfo Persico, carica di materiali prodotti appunto con risorse fossili gassose. L’obiettivo sarebbe quello di verificare se gli impianti di Taranto siano o no compatibili con questo nuovo, particolare, processo produttivo. Sembra che, dentro all’acciaieria, stiano conducendo un’operazione assimilabile a quella che farebbe un meccanico impegnato a capire se, un motore che ha sempre girato a benzina, possa - attraverso opportune modifiche - viaggiare con il gasolio.
Da quanto trapela, a Taranto aleggerebbe un certo qual ottimismo. Lo studio di fattibilità si troverebbe in stadi avanzati nell’acciaieria, anche se tutto rimane coperto da uno stretto riserbo. Negli altiforni dovrebbe iniziare in tempi rapidi, ma sembra ci siano precedenti, nell’utilizzo di questi prodotti, che farebbero ben sperare. Le stesse fonti vicine al ministero confermano che a Taranto sarebbero stupiti se le cose andassero male: negli anni passati, per rispondere al boom della domanda, i tecnici dell’Ilva provarono già a caricare gli altoforni con questi specifici materiali. E, allora, il tentativo andò bene.
Il problema, dunque, è capire se, anche questa volta, tutti i tasselli andranno al loro posto. Modificando così, in tutto e per tutto, l’assetto produttivo dell’impianto siderurgico. I vantaggi, da una simile rivoluzione tecnologica e organizzativa, sarebbero di natura ambientale e di natura industriale. Sotto il primo profilo le emissioni di CO2 calerebbero di oltre il 60 per cento. Inoltre, nell’aria di Taranto non ci sarebbero più (o, almeno, diminuirebbero significativamente) gli idrocarburi policiclici aromatici: i famigerati Ipa, ad alto tasso di contaminazione, prodotti dalla lavorazione del carbone. Infine, la quantità di materiale stoccato nel perimetro dell’acciaieria e intorno ad essa si ridimensionerebbe di un buon terzo: per esempio, le "colline" di Tamburi sarebbero più basse di un buon 30 per cento.
Sul versante industriale, la produttività dell’acciaieria resterebbe identica. Quella, invece, degli altiforni potrebbe crescere fino a un + 10 per cento.
Questa profonda riorganizzazione della seconda acciaieria europea, che è appunto al vaglio dei tecnici e del management guidato dal commissario Enrico Bondi, non dovrebbe impattare sui conti. Resta ferma la somma di 2,45 miliardi di euro, in via di negoziazione con le banche. Ecco, però, il dettaglio di massima: 1,5 miliardi di euro per ottemperare alle prescrizioni dell’ultima Aia; 300 milioni di euro per realizzare altre migliorie ambientali; 645 milioni di euro per la gestione ordinaria degli impianti. Naturalmente, a Taranto, si sta lavorando su questa che è la fase A. Ma, in prospettiva, da quanto lasciano intuire le parole di Edo Ronchi e da quanto si apprende da ambienti romani vicini al dossier, ci potrebbe essere anche una fase B. Perché, sul lungo periodo, l’intero nuovo ciclo tecnologico-industriale potrebbe contare su un rigassificatore. L’impianto siderurgico o il porto potrebbero, infatti, ospitarlo. A quel punto, navi cisterne sarebbero in grado di portare le risorse fossili. In questo caso, l’acciaieria chiuderebbe il cerchio assumendo un grado di indipendenza e di efficienza energetica molto elevata. Si esalterebbe così la scelta specifica dello shale gas, che rispetto ad altri idrocarburi gassosi (come il metano) è disponibile in maggiori quantità in forma liquida. Quando sarà a Taranto bisognerà farlo diventare di nuovo allo stato originale, con il rigassificatore. Dunque, paradossalmente sarà più conveniente comprare lo shale gas negli Stati Uniti, dove stanno sorgendo molti impianti per la sua liquefazione, e portarlo fino al Mediterraneo, che non acquistare per esempio del semplice metano in Nord Africa, dove invece mancano le strutture per liquefarlo.
Comunque, anche soltanto la prima fase di questa rivoluzione – senza dunque l’ipotesi della costruzione di un rigassificatore – rimodulerebbe gli equilibri della siderurgia europea. Nessun altro impianto europeo usa lo shale gas, che rappresenta la forma di idrocarburo a basso costo più competitivo e oggi più disponibile sul mercato. Ci sono alcune sperimentazioni, ancora allo stadio larvale, in area tedesca, ma nessuna ha la cogenza del maglio giudiziario e la veste – in questo caso beneficamente costrittiva – del commissariamento.
Dunque, in questo l’Ilva di Taranto potrebbe rappresentare il primo tassello di un mosaico di modernizzazione in grado di traghettare l’intera siderurgia continentale verso una maggiore efficienza produttiva e una più accentuata identità green-tech. Assecondando una tendenza che, invece, si è imposta nel resto del mondo: dove c’è disponibilità di gas, le acciaierie non funzionano più con gli altiforni.
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