Daniele Martini, il Fatto Quotidiano 18/9/2013, 18 settembre 2013
IL RELITTO ORA SERVE A FARE SOLDI
Con il relitto della Costa Concordia recupereranno appena gli spiccioli. Meno di 20 milioni di euro, secondo un primo calcolo assai grosso, ricavati quando lo scafo di 114 mila tonnellate sarà tagliato a pezzi (scrapping, in gergo), recuperate circa 90 mila tonnellate di acciaio, ieri quotato nel porto di Manchester 0,15 sterline al chilo, e rivendute sul mercato per la costruzione di altre navi. Un’altra cifra simile forse potrà essere incassata rivendendo le altre 80 mila tonnellate di acciaio comprate in questi mesi da Costa crociere e utilizzate per le varie fasi dell’operazione di raddrizzamento dello scafo (i cavi e i tiranti, i cassoni realizzati dalla Fincantieri etc...). Qualche altro milione di euro potrà essere incassato vendendo i chilometri di cavi elettrici della nave, quelli recuperabili, almeno, e il rame usato ha un prezzo assai più alto dell’acciaio, intorno alle 3 sterline al chilo.
Altri quattrini, infine, si potrebbero ricavare piazzando i motori, ammesso che siano ancora in buono stato o utilizzabili. Ma sommato tutto, il totale rimarrà ovviamente molto distante dal costo di 450 milioni di euro della Costa Concordia quando era in spolvero e solcava sicura il Mediterraneo.
Nel mondo c’è tutto un mercato più o meno fiorente e più o meno selvaggio per le navi in disarmo. Di solito gli armatori le portano a morire lontano, nei cimiteri marini in Bangladesh, nel Sud est asiatico in generale, nel centro e sud Africa, dove lo scrapping viene eseguito con sistemi di sicurezza assai scarsi e per lo smaltimento dei materiali inquinanti e di risulta nessuno si pone eccessivi problemi. In Europa il discorso è diverso e in Italia diverso ancora e per la Costa dovranno essere applicati criteri ancora più particolari. Il primo criterio sarà che, pur restando il relitto di proprietà dell’armatore, è impensabile possa essere l’armatore stesso a indicare in solitudine dove demolirlo. La scelta sarà effettuata con il ministero dell’Ambiente e non sarà facile individuare un porto adeguato, possibilmente annesso ad un cantiere navale in modo da poter contenere i costi di trasporto dell’acciaio da riutilizzare.
RIMESSA IN ASSE E IMBRACATA, la Costa ha assunto dimensioni inconsuete, con un pescaggio di 20 metri (rispetto ai 9 normali) e una larghezza di 60 (rispetto ai 35 all’origine). In Italia sono 3 i porti sufficientemente profondi per ospitare un bestione del genere: Trieste, che ha un pescaggio di circa 18 metri e il vantaggio di avere vicini i cantieri di Monfalcone, Gioia Tauro in Calabria (18 metri), mentre il porto più profondo è Savona Vado dove la compagnia Maersk sta costruendo un terminal profondo 20 metri, appunto, ma che sarà pronto solo tra 3 o 4 anni e non è detto vogliano metterlo a disposizione per le demolizioni. L’ipotesi Piombino, porto vicino e disperatamente a caccia di lavoro, necessiterebbe di lunghe e costose opere.
Finora Costa per il raddrizzamento della nave ha speso 610 milioni di euro, coperti da P&I Standard Club, trust assicurativo specializzato in affari marittimi e alimentato con le quote versate dai singoli armatori. La cifra comprende i relativamente modesti danni ambientali accertati, mentre la verifica di eventuali altri danni sarà effettuata dall’Ispra del ministero dell’Ambiente in collaborazione con l’Agenzia toscana Arpat.