Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 12/9/2013, 12 settembre 2013
ENRICO BERLINGUER: “UN PARTITO SERIO NON TRADISCE LA LINEA”
Enrico Berlinguer da qualche mese è entrato nell’ufficio più importante di Botteghe Oscure: è il nuovo segretario del Partito comunista italiano, ha preso il posto di Luigi Longo che nel 1969 lo aveva voluto accanto a sé come vice. L’appuntamento è alle dodici.
È stato battezzato “il sardo-muto”, perché è nato a Sassari e parla poco. È uscito dal liceo per entrare nel partito. Non ha concluso l’università, ma ha studiato profondamente i teorici del marxismo, e i classici della politica. La ribellione comincia quando è ancora ragazzo, ma nella sua nobile famiglia si contesta quasi per tradizione. Ha alle spalle un bisnonno repubblicano, un nonno che va con Garibaldi e un padre che è contro Mussolini. Non si presta al “colore”: anche dalle confidenze di chi gli sta vicino si ricava ben poco. La sua sposa si chiama Letizia, e si comporta come una qualunque casalinga. Il segretario non appare mai in pubblico, solo a poche feste dell’Unità. Ha ottimi rapporti con i figli, che vede assai poco, perché ogni mattina esce alle otto, e rientra a sera tarda. Di costituzione delicata, è un accanito fumatore, ma il fratello Giovanni, medico, lo ha indotto a ridurre la razione di sigarette. Trascurato nel vestire, non dimostra particolare predilezione per la buona tavola. C’è una celebre battuta di Pajetta: “Giovanissimo si iscrisse alla segreteria del Pci”. È un politico che odora di pulito.
Prima di incontrarlo ho dato un’occhiata ai ritagli; poche notizie. Cinquant’anni, sembra che ami la musica classica: preferenze Wagner e Bach. Appassionato di vela e soprattutto di calcio, qualche domenica va all’Olimpico ed è tifoso del Cagliari, e d’estate, durante la villeggiatura a Stintino, si diverte ad arbitrare partite di ragazzi. Dice di lui un amico: “Se gli viene da ridere pare quasi che se ne vergogni”.
L’esercizio, penso, non sarà facile. Allegri.
Nella portineria di Botteghe Oscure c’è il ritratto di Togliatti, dietro la sua scrivania quello di Gramsci. L’ufficio è piccolo, tranquillo. Enrico Berlinguer ha l’aspetto gracile e il volto segnato: la politica è il suo mestiere, la sua vita. Casa, famiglia, ad esempio, non debbono entrare nella cronaca. E, tutto sommato, è un suo diritto.
È una domanda d’obbligo: com’è diventato comunista?
Da ragazzo c’era in me un sentimento di ribellione. Contestavo, se vogliamo usare una parola di moda, tutto. La religione, lo Stato, le frasi fatte e le usanze sociali. Avevo letto Bakunin e mi sentivo un anarchico. Nella biblioteca di uno zio, socialista umanitario, trovai il Manifesto di Marx; poi conobbi degli operai, degli artigiani che avevano seguito Bordiga, e che anche col fascismo conservavano i loro ideali. Esercitarono su di me un forte richiamo; c’era, nelle loro vicende, molta suggestione.
Dicono che lei è stato il delfino di Togliatti. Quando l’ha conosciuto?
A Salerno; allora il governo era laggiù, nel 1944. Mi presentò mio padre; erano compagni di liceo. Ne avevo sentito già parlare, ma come Ercole Ercoli, o Mario Correnti, il nome che usava ai microfoni di Radio Mosca. Togliatti era rientrato in Italia dopo 18 anni di esilio, era riuscito a formare un governo di unità nazionale per cacciare i nazisti. Aveva l’idea di un partito nuovo popolare e di massa. Nel secondo governo Badoglio, Togliatti era vicepresidente con Benedetto Croce. Gramsci, invece, aveva studiato a Cagliari.
La Sardegna ha il suo peso nel vostro partito.
Già. Togliatti e Gramsci erano molto bravi a scuola, vinsero una borsa dell’Università di Torino, e là s’incontrarono. Togliatti si licenziò con tutti otto e qualche nove. Hanno ritrovato la pagella. Bravissimo. Ma una sorella lo batteva.
E il liceale Berlinguer come se la cavava?
Io? Normale. In mezzo. Molti sei, qualche sette, pochi otto. Ma non dimentichi che tra i sardi c’è anche Velio Spano, antifascista e costituente. Togliatti era figlio di un economo dei convitti nazionali, trasferito nell’isola; c’è ancora chi lo ha in mente come un giovanottino studioso, riservato, che non si occupava di faccende politiche. Rimasero sbalorditi quando seppero che Ercoli era lui.
E Croce lo ha visto?
Certo; per un periodo sono stato anche un suo seguace. Sempre a Salerno, alla mensa del ministero delle Finanze. Pure i collaboratori di Badoglio che non avevano macchine, e allora non c’erano ristoranti, mangiavano con gli impiegati, quelle terribili pappette americane, e la carne in scatola. Se non è irriverente, ma forse non è il caso di dirlo, Croce mi fece impressione per il buon appetito che dimostrava.
Sono accadute molte cose da allora. C’è chi sostiene che, pur di andare al potere, adesso vi accontentereste anche di un sottosegretariato alle Po ste.
No, chiederemmo di sicuro qualcosa di più. Ma che bisogno c’è di entrare in un governo? Potremmo anche appoggiarlo standone fuori. I comunisti italiani devono trovare una loro strada, completamente diversa da quella dei partiti dell’Est.
Cosa è mutato da quando sedevate attorno a De Gasperi e coi liberali? Intendo dire: cambiato per voi?
A quell’epoca c’era un grande entusiasmo. C’era la fede nell’Urss e in Stalin, e i dirigenti erano fuori da ogni critica, si erano guadagnati il rispetto di tutti nella lotta antifascista. Poi, i rapporti si sono fatti burrascosi, il dibattito più libero, si sono poste delle questioni e si sono discusse. L’adesione al partito è diventata più razionale, più meditata. C’è stato, e penso che nessuno abbia difficoltà a riconoscerlo, un progresso notevole. Infine nel 1956 è arrivato lo scossone del XX Congresso del Pcus con Kruscev che aveva denunciato le violenze di Stalin.
E non avete più insistito nel proporre i vecchi modelli: l’Ungheria, la Polonia o l’Unione Sovietica, che era sempre il paese al di sopra di ogni sospetto.
Non nascondiamo la nostra simpatia per l’Urss, non condividiamo le scelte che ha fatto, la nostra posizione non esclude il dissenso. In ogni caso, il tipo di socialismo che si può e si deve costruire da noi è del tutto diverso. Per intenderci, all’Est, lo sviluppo dei fatti è stato condizionato dalla situazione interna e da quella internazionale. Guerra fredda e accerchiamento hanno determinato certe scelte dell’Urss. Solo la Cecoslovacchia aveva alle spalle un minimo di democrazia borghese. Poi ci sono stati, è evidente, gli errori, che bisogna ammettere, perché non basta la ragione storica a spiegare certe limitazioni a un regime di democrazia politica. Con grande libertà dico che siamo pronti a camminare con chiunque si proponga le nostre mete.
È quasi una confessione.
No, è un’analisi. Ci sono alcune libertà, come quella di stampa, che hanno un valore assoluto. Ma bisogna che ci siano anche certi mezzi per renderle effettive. Alcune giuste esigenze sono limitate dal capitalismo, dallo sfruttamento di classe. Ma già la nostra Costituzione, che è una delle più avanzate, contiene principi e norme che tracciano nuove strade: il diritto al lavoro, all’istruzione, all’assistenza aprono la via ad alcune riforme economiche che devono tener conto della particolare struttura dell’Italia, dove non c’è soltanto una grande borghesia e un proletariato, ma un ceto medio produttivo, che va conservato, perché in alcuni campi l’iniziativa dei privati può giovare allo sviluppo dell’intera società.
Sono queste affermazioni, forse, che hanno provocato la nascita del Manifesto. Cosa è stata per lei questa frattura?
Non una sorpresa, ma un fatto doloroso. Sono compagni coi quali abbiamo vissuto tante esperienze. Nel Congresso di Bologna, che mi nominò vicesegretario, Rossanda, Natoli e Pintor rimasero inizialmente all’interno del Comitato centrale, la destra del partito era per l’immediata espulsione. Ero convinto che lo strappo potesse creare una specie di “tribuna d’opinione”, abbiamo discusso per alcuni mesi: la rottura è stata inevitabile, non sul piano personale con loro mi confronto ancora.
Come spiega la sfiducia di fondo che c’è per i vostri programmi? Forse scontate anche i fallimenti e gli sbagli di alcune Repubbliche socialiste.
Alle politiche del maggio scorso abbiamo preso nove milioni di voti, il 27 per cento, un milione e mezzo di iscritti, non sono poi un bilancio che denuncia una grande diffidenza nei nostri confronti. Un partito serio non può permettersi di enunciare una linea e poi di comportarsi in maniera opposta.
Veramente c’è una casistica che potrebbe dimostrarlo.
Ma poi, non saremmo mai soli, saremmo sempre con gli altri. La gente ci crede, e noi offriamo garanzie alla gente anche contro di noi. Non siamo, bisogna intendersi, disposti a collaborare con tutti, ma con coloro che si riconoscono in alcuni obiettivi comuni.
Non è un riferimento a testi classici, tutt’altro. Ricordo una scenetta che recitava, nel primo dopoguerra, Totò. Gli annunciavano l’arrivo di un russo; e lui aveva paura. “Ma è un russo buono”, diceva l’attore che gli faceva da spalla. E lui: “Sempre russo è”. E l’altro insisteva: “Ma un russo bianco”. E Totò: “Sempre russo è”. E così molti pensano del Partito comunista italiano.
Scusi, ma perché la Democrazia cristiana, avendone la possibilità, non ha instaurato la sua dittatura? Non esiste nessun partito che, per definizione, sia alieno dal prendere tutto il potere. Vedi Tambroni, vedi la “legge truffa”. Noi chiediamo una leale intesa con gli altri. Vorrei poter dire che Dio mi è testimone, sa che sono sincero, ma non posso dirlo.
Lo dica, perché no?
Perché non sono credente.
Sua moglie lo è?
Sì. Lei crede.
E i suoi quattro figli sono battezzati?
Non mi va di parlare di loro, devono restar fuori, devono poter fare, liberamente, le loro scelte, senza alcun pregiudizio.
Perdoni l’insistenza. Sono, anche loro, nella fase anarchica?
La maggiore ha tredici anni; sarebbe troppo precoce.
Nel primo discorso da segretario ha detto che lei non sarà né Togliatti né Longo, cosa significa?
Il discorso continuava così: “Non aspettatevi da me quello che non posso dare”. Io non appartengo a quella generazione eroica di chi mi ha preceduto, non ho il passato di Terracini, Amendola, Pajetta e tanti altri, farò del mio meglio e con passione. È il momento di cercare, insieme, di trasformare la società, lavorando con l’obiettivo di unire tutti gli strati sociali e le forze politiche di ogni orientamento. Dobbiamo raggiungere l’unità per il bene del paese, però senza cedere all’estremismo.
Cosa ha rappresentato per il suo partito il Sessantotto, il movimento studentesco?
Il segretario Longo, che si era recato a Praga ad abbracciare Dubcek, non va dimenticato, volle incontrare una delegazione di studenti, e dopo scrisse su Rinascita : “Il movimento studentesco peccherà magari di estremismo, ma si batte contro il sistema capitalistico”. Noi siamo stati loro alleati. Il Pci è sempre stato presente in tutte le lotte contadine, operaie e anche nel movimento studentesco.
La bomba di piazza Fontana a Milano, la morte dell’anarchico Pinelli, il recente omicidio del commissario Calabresi…
Le bombe e la violenza hanno un solo scopo: quello di creare nel popolo un sentimento di paura, esasperare gli animi, un clima di grande confusione, per innestare un tentativo di soluzioni autoritarie. È passata un’ora e alle quattordici Berlinguer ha l’abitudine di andare a casa, mi dice: “Vado per scrivere, per studiare, in casa mi trovo meglio”. Togliatti aveva alle spalle l’Albergo Lux di Mosca, il Comintern, Dimitroff e la Pasionaria, le “purghe” e Stalin; Longo la guerra di Spagna e le brigate partigiane. Enrico Berlinguer esce da una biblioteca di buoni borghesi antifascisti, da una scuola di partito, dalle conversazioni che faceva, in un paese della provincia di Sassari, con pastori e marinai. Un pescatore che l’aveva conosciuto a quei tempi ha raccontato a un cronista che inutilmente cercava un po’ di “colore”: “Sin da bambino era serio, molto chiuso. Non rideva mai”. Già. È la stessa osservazione che un monsignore avrebbe fatto a Paolo VI: “Molti si chiedono perché è così raro vedere Vostra Santità sorridere”. “Che motivo ne avrei?”, rispose il Papa.