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 2013  settembre 16 Lunedì calendario

VI RACCONTO DI: BESTIE, RAFFINATI DEMENTI E COLTI

Il file che contiene, ed è, il nuovo libro di Michele Mari sfarfalla come fatto brillare sullo schermo di un pc portatile. Si chiamerà Roderick Duddle, un titolo che echeggia quelli di Jack London, sul genere di John Barleycorn. Il suo autore, il fisico del ruolo a metà tra quelli dell’eremita e dell’atleta, i tratti somatici tra il Vasari e Eric Cantona, è in piedi e lo guarda: “in realtà è nato come capriccio nel segno di Dickens, degli orfanelli come David Copperfield e Olivier Twist bastonati dalla vita”. Sta scrivendo currenti calamo dal-l’inizio dell’estate; sono le 4 di pomeriggio e ha appena finito la sessione quotidiana: “scrivo la mattina fino al primo pomeriggio. Nonostante l’ambientazione gotica di molte mie storie non sono mai stato uno scrittore notturno. Dopo cena al massimo correggo”. Siamo intenzionati a parlare male del mondo e a intenderci come appartenenti alla comunità dei nevrotici, perciò gli domando se ci pensa durante il giorno: “sì, per ansia. Per tacitare l’ansia butto giù due appunti. Ma sempre a breve gittata, al massimo penso a quello che scriverò il giorno dopo. Sono a 4/5 del libro e mi credi?, non ho la minima idea di come finirlo”.
Sul tavolo i Cento racconti di Bradbury, lettura di questi giorni. Intorno gli amati Stevenson, Melville, Céline. “Io la questione se Céline fosse nazista non me la pongo nemmeno, perché era un genio. Se ti dicessero che Bach era pedofilo tu che dici? Ma chi se ne frega”. Siamo nella stessa Roma litigiosa e negligente di Manganelli e di Gadda, come lui lombardi capitati nella città che più caldeggia il mito di se stessa. Dalle finestre arrivano voci e parole di quel tipo di popolo di cui Flaiano fece epica. Suona non discorde la mia domanda riguardo quell’opera incessante che i suoi lettori gli conoscono di setacciare la lingua italiana per tenere le parole più preziose e scartare quelle comuni. “È un’operazione che mi consente il lusso di scegliere all’interno di una gamma più vasta: se ci sono espressioni trite o cariche di sottintesi volgari o irritanti trovo delle alternative tonali e affettive più nobili chimicamente, oppure adopero parole d’uso secondo una particolare accezione, non quotidiana”. Eppure dentro questo ordito linguistico “discontinuo al presente” ci sono parole defraudate della loro autentica volgarità che abbiamo difficoltà a usare letterariamente, per esempio quelle che la politica ha rapinato e liofilizzato, o quelle dell’erotismo uscite dalle intercettazioni che, sublimi se dette in altri contesti, non sprigionano la bellezza eversiva di pronunciare l’interdetto, perché ormai appartengono al lessico grossolano del potere. “Io recupero quelle grevi con l’alibi di alcuni personaggi bestiali; mi autorizzo la bassezza linguistica, il coprolalismo, la contaminazione del mondo alimentare con quello fecale, col mondo delle bestemmie, del furore, della fisiologia. C’è una purezza nella violenza linguistica che ha funzione narrativa e assume anche un valore musicale, di contrappunto. Sono forme regressive e liberatorie che mi permetto con l’animo del bambino che dice le parolacce, confidando che diventino letteratura”. Ma ci saranno parole oscene in senso assoluto e quindi inutilizzabili. “Io trovo pornografico l’uso corrivo da parte dei giornali di espressioni che senza un minimo di vaglio vengono adottate da tutti, tipo ‘i due marò’. Io li vorrei in ergastolo in India solo perché li chiamiamo marò. Che parola è? Non esiste. È un gelato, un mottarello? O si usa marines, oppure lagunari. La parola marò è una parola giornalistica degna di un animatore di villaggio turistico”. Incoraggio uno sfogo arbasiniano sui titoli dei giornali. “Certi occhielli, tipo quelli dell’Espresso: ‘A volte ritornano’, con la faccia di Prodi, di Monti. Mi dà fastidio il diminutivo ai cognomi, tipo Schumi, Ibra... Queste cose mi mandano in bestia. Trovo più antropologicamente necessario l’insulto che queste forme di sciatteria che la gente fa proprie senza prendersi le proprie responsabilità”.

Le neo forme per comunicare
Per non parlare del linguaggio on line: coazioni biopsichiche della sciatteria. “Nascondono viltà umana, di chi ha paura che non adeguandosi alla norma possa passare per strano o altezzoso e quindi antipatico. È il motivo che osservo con disappunto per cui nelle mail la gente si firma sempre con la minuscola, come se mettere la maiuscola fosse un segno di arroganza. È una forma di ruffianeria e di ammicco. Finché lo fa un ragazzino sono indulgente, ma quando un collega universitario mi manda un sms in cui c’è la x al posto di ‘per’ io lo trovo squalificante”. L’irritazione, la principale cifra relazionale di Gadda col mondo, per Mari apre una questione etica e estetica. “Mi irrita quando nelle pubblicità qualcosa di buono viene definito ‘goloso’. Per me basterebbe a giustificare un licenziamento, invece viene sottoscritto da tutti. Perché?”. Azzardo: è condiviso perché è condiviso, come Paris Hilton è famosa perché è famosa. Resistere, cercare un rifugio dentro una lingua e intatta, ricomporre l’infranto, come direbbe Walter Benjamin, è una causa persa. “Frequentando questa lingua non ho l’impressione di essere in un museo, di fare qualcosa di mortuario e rituale. Non sono d’accordo con Manganelli quando dice che il vero scrittore scrive nella lingua dei morti. Io la sento vivissima”.

Ma così si finisce per leggere gli autori vivi. “Se hanno un grado zero di scarto rispetto alla lingua d’uso tendo a non leggerli. Anche nei modi più asciutti e immediati devo sentire un timbro, una forza, un’energia che non sono quelli del telegiornale o del cazzeggio”. Sarà mica vero che oltre la scrittura non c’è niente, che la realtà reale di cui parlava Calvino nelle Lezioni americane è inconsiderabile? “Sì, per me è così. Solo la letteratura mi dà riconoscimento, realizzazione. Il resto è comunicazione. Noi facciamo tante operazioni senza dialogare, facciamo la spesa e allunghiamo la carta di credito. Siamo presi dall’urgenza pratica e parlare diventa un’azione. La parola letteraria non è questo. Se io devo, e anche qui sarà un feticismo mio, se devo comunicare qualcosa per mail, io scrivo una lettera su un foglio di Word, salvando le maiuscole e la punteggiatura, con i rientri, i corsivi… la dato e poi la allego”. Segue un silenzio misterioso e vagamente sacrale. La domanda successiva è se le conserva. “No, le butto, ma in quel momento mi sento di pormi in una posizione rispetto all’altra persona che è piena di mediazioni. Su un piano di purezza metafisica sono come un cervello assoluto che scrive a un altro cervello assoluto, al di là degli interessi contingenti. È più sano”. A proposito: Gadda disse in un’intervista: “questo popolo di mangiatori di maccheroni non riesce a distinguere il sano dall’amente”. “Sì”, concorda. Eppure ci ha insegnato quanto sia raffinato quel tipo di amenza alla Piero di Cosimo, che osservava per ore un muro ricoperto di sputi. “Io avverto la tensione tra il miserrimo, il lercio, l’assurdo, il decrepito, e il sublime, il barocco, la fioritura, il ricamo. Sono attratto anche nel gusto per gli spazi e gli oggetti da ciò che è poco pratico e funzionale, discontinuo alla legge del commercio”.

Gli oggetti e l’estetica
Sacra pazienza di vivere in un modo disumano. E gli oggetti? Le cose ostili? Le maniglie che non aprono, le porte che cigolano? “Quest’estate in campagna è venuta giù una tettoia di lamiera con una cimasa liberty. Io so benissimo che aggiustare quella greca costa più di quattro lamiere nuove. Ho chiamato un fabbro che ha detto ah no qui bisogna cambiare tutto. Quando gli ho detto che volevo salvarla lui esprimendosi brutalmente ma cogliendo il punto mi ha detto: allora è per estetica. Esattamente gli ho detto, è per estetica. Mi sono consegnato nelle sue mani, adesso ovviamente mi farà pagare di più”. Saremmo mica un po’ snob, noi intellettuali inattuali, a elogiare il basso primitivo e a scansare il medio al solo scopo di far rifulgere l’eccelso ipercolto che crediamo di incarnare? Siamo nella fase: quanto siamo decadenti nel nostro proclama di asocialità? Ci rispondiamo annuendo gravemente : molto, molto. “I miei personaggi sono o esteti colti e raffinati o dei dementi, delle bestie. In questo sono reazionario come Pasolini. Lui vedeva certi volti da primati, da bruti preistorici, e inorridiva perché questi avevano la Bianchina Innocenti, lo stereo, e si erano ripuliti… Dobbiamo aver fatto la rivoluzione, aver votato a sinistra perché il popolo si mettesse a scimmiottare i ricchi e diventasse peggio dei ricchi. È il motivo per cui oggi metà dei voti popolari vanno a Berlusconi. Era meglio (l’ho scritto in Rondini sul filo) al tempo di Luigi XIV, che aveva blindato i cazzoni tutti dentro Versailles. Oggi tutti vogliono essere come Berlusconi. Cosa che mi fa rimpiangere i vecchi partiti di una volta, DC compresa. Partiti dietro lo stemma dei quali le singole figure si nascondevano, e veniva meno questo meccanismo di identificazione con un leader”. Un temporale che la convenzione definisce estivo ci costringe all’attualità. Gli domando se ci sono luoghi fisici in cui si sente meglio, o se, come per i grandi autoesiliati, è la casa, da lui definita (in Fantasmagonia) “feticcio e tabù” e tana in cui ci si “autoinala”, l’unico luogo clemente? “In genere l’elemento decisivo non è tanto la conformazione del luogo quanto l’assenza di persone. Per me è meglio mangiare da solo in un fast food di Gallerate che a Acapulco a una tavolata di imbecilli. I tramonti più belli, il vino più buono del mondo, gli arredi… non vale nulla se sei circondato da imbecilli”. Chiedo da cosa riconosca principalmente l’imbecillità, già “scemenza del mondo” della Cognizione del dolore, quali ne siano gli indicatori più clamorosi. “L’imbecillità si vede perché è rumorosa e cialtrona. Fin da ragazzino ho sempre evitato queste compagnie, e quando mi ci sono trovato stavo male e ero costernato dagli altri”. Come difendersi? “Venti teologi luterani ottantenni fanno meno casino di venti studenti che hanno appena finito la maturità”. E le donne? “A parità di comportamento becero, la donna raramente trasmette segnali di aggressività, che invece io colgo tutti i giorni negli uomini, anche nel modo di tenere gli occhiali, di sedersi… c’è sempre un sottinteso bellico”.

L’amore è stato una chimera
Meglio la violenza bellica degli scacchi di cui parlava Bobby Fisher. “Gli scacchi li ho praticati fino a un discreto livello, poi mi sono accorto della deriva nevrotica. Ha ragione Fisher, è un gioco violentissimo, in cui con ogni fibra si cerca di distruggere l’avversario. Diversamente dagli altri sport chi è nettamente superiore non gioca rilassato, con nonchalance, concedendo al pivellino di prendersi una soddisfazione, ma cerca di stroncarlo spietatamente, perdendo anche il lusso che gli viene dalla sua stessa superiorità”. Pare quasi d’obbligo un’analogia con la scrittura, dove però in egual misura si ergono sovranità irresponsabile e voluttà di sconfitta. “Non so se c’è un’analogia al di là della strana alchimia per cui le caselle e i pezzi sono limitati, e il tipo e il numero di mosse regolate, così come la consecutio e la sintassi. Certo in entrambi i casi dopo un certo numero di mosse si entra dentro una configurazione inedita. Ma lo sai che in 50 anni di attività uno scacchista non ripete mai la stessa partita?”. Fine dell’analogia: faccio notare che c’è gente che invece scrive da trent’anni sempre lo stesso libro.

Visto che siamo finiti su quel racconto ossessivo di Süskind che stritola il lettore nella tenaglia psicologica di una partita di scacchi, gli chiedo se per lui l’erotismo ha un’inattingibilità che somiglia a quella della vittoria definitiva. “Per un periodo della mia vita l’amore è stato una chimera. Non crederci era una strategia difensiva, lo consideravo una messa in scena che gli altri facevano in malafede. Ne scrivevo come di qualcosa di impossibile e invivibile perché pativo l’unilateralità, il fatto di essere solo soggetto amoroso. Poi mi sono accorto che anche nella vita di chi viene ricambiato la quidditas dell’amore è unilaterale. Non dà e non toglie nulla all’amore essere ricambiati o no. Tantomeno la vita convissuta” . Bisognerebbe incoraggiare l’asocialità e l’inattualità anche in amore? “Mentre parlavi mi è caduto l’occhio su questo (mi mostra un numero della rivista Il Mondo che gli ho portato in regalo): ‘La cosa strana del matrimonio è che l’uomo si innamora di una fossetta o di un neo, e poi deve sposarsi tutta la donna’. Ecco: potrei firmarlo come mio”. Certo alla comprensione di questo giova essersi formati, psichiatricamente, sul suo glorioso apologo del feticismo letterario, I demoni e la pasta sfoglia. Si tratta dunque di feticismo? “Ho un imprinting frankensteiniano: coltivo il sogno di formare una donna con le sopracciglia di una, il seno di un’altra, eccetera. In modo meccanico, chirurgico, non platonico. Non voglio cogliere l’idea del bello, come Zeusi: io correggo questa scena in chiave meccanica, di assemblaggio”. Anche la collezione ripetuta e coattiva di Don Giovanni funziona così: l’accumulo compone il miraggio disperato di un’immagine totale. “Sì ma la mia è più l’idea adolescenziale per cui quello che conta è ricreare un’emozione nel momento epifanico, nell’incertezza. L’emozione finisce con la conquista, per questo ci si condanna a un continuo delibamento. Mi sono sempre sentito dire che sono capace di grandi innamoramenti e incapace di amore. Sarà così. Non so nemmeno dire se è un bene o male, è come nascere alto o basso. Io sono nato così”.

Gli chiedo dell’infanzia sanguinosa di un suo libro di racconti. “La mia infanzia è stata terribile. Non ho mai avuto il bene della solidarietà diciamo biologica degli altri bambini. Li ho sempre visti come il nemico. Ho scritto un diario-trattato sull’esperienza del militare (Fenomenologia dell’anfibio, ndr), in cui dico apertamente che la mia controparte, il Male, non era l’autoritarismo, l’assurdità della vita militare, la durezza delle corvée, ma l’obbligo di dover convivere coi miei coetanei sudati, sporchi, villani, violenti, al punto che pur di garantirmi un po’ di requie benedicevo la stessa autorità militare che imponeva l’ordine. Se la soffrivo è perché era troppo blanda, lacunosa. Quando la sera le camerate diventavano teatro delle più volgari manifestazioni di esuberanza animalesca, io sognavo con la mente il trump trump di un battaglione di SS che mettesse al plotone tutti i miei compagni” . Siccome rido, non prende sul serio lo scrupolo, che gli comunico, di omettere questa parte dell’intervista. Alza le spalle, il segnale che si può cambiare argomento. Alla luce di quanto è emerso, gli chiedo se non lo insospettisce il fatto di essere amato e capito dai suoi lettori. “Il fatto che il mio libro migliore, La stiva e l’abisso, non venga mai citato, e che i libri che hanno venduto di più siano Rosso Floyd e le poesie, che sono quelli che metto in fondo alla mia classifica personale, dice tutto”.

Questo è del tutto coerente. Qualcosa è finalmente in ordine. “Sì, è coerente. Quindi non mi insospettisce di essere uno scrittore amato, lo prendo come qualcosa di inevitabile, come parte di un equivoco”.