Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 15/9/2013, 15 settembre 2013
LA POLVERE SOTTO IL TAPPETO DEI CONTI
La linea di palazzo Chigi è netta e politicamente esplicita: “Non sarà questo governo a portare l’Italia fuori dal tetto del 3 per cento del deficit sul Pil”. D’altra parte il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni avverte che sul deficit 2013, oggi stimato al 2,9 per cento, ci saranno “scostamenti dal 3 per cento minimi e gestibili”. Se oggi siamo sopra il 3 per cento e se il governo vuole rimanere comunque sotto il 3, la conclusione è una sola: proporrà al Parlamento interventi per raggiungere l’obiettivo. Tagli o tasse. E allora si vedrà se qualcuno osa votare contro, se è disposto ad assumersi la patente di irresponsabile che vuole condannare l’Italia alla gogna del ritorno sotto procedura d’infrazione europea. Ecco quello che bisogna sapere per capire cosa sta succedendo.
Perché all’improvviso c’è grande allarmismo sulla tenuta dei conti pubblici?
A Roma e Bruxelles c’è interesse a creare un clima che favorisca la stabilità del governo. Ma i numeri sono davvero impietosi. Lo ha ricordato giovedì la Banca centrale europea nel suo bollettino mensile: “C’è un aumento del rischio che l’Italia non raggiunga l’obiettivo del governo sul deficit 2013 (2,9 per cento del Pil)”.
Siamo già sopra il 3 per cento?
Secondo le stime informali che circolano siamo almeno a 3,4-3,5 per cento. Due indizi fanno una prova: l’effetto della recessione è peggiore di quanto scritto nei documenti del governo: il Pil scenderà di almeno 1,7 punti, se non di più. Invece che 1,3, come previsto dai documenti del governo. Secondo indizio: il fabbisogno (la misura di quanto debito serve mese per mese per finanziare le uscite del Tesoro) è molto elevato, ad agosto 60,1 miliardi contro i 33,5 del 2012. In gran parte responsabilità del pagamento dei debiti arretrati della pubblica amministrazione.
Cosa è andato storto?
Quando Mario Monti si è congedato, aveva lasciato i conti in ordine almeno per quanto riguarda il 2013. Ma aveva già spinto al limite la flessibilità ottenuta grazie ai sacrifici degli anni passati: per pagare 20 miliardi di euro di debiti arretrati della Pubblica amministrazione, il deficit di quest’anno sarebbe passato da 2,4 a 2,9. Poi è arrivato Letta. E, come riassume la Bce, non ha completato le riforme strutturali e ha introdotto nuove incognite, cancellando la prima rata dell’Imu con coperture ballerine e promettendo di eliminare la seconda, senza indicare con precisione risorse alternative. Morale: per quanto creativa, la contabilità pubblica si fonda sull’aritmetica. Se riduci le entrate senza tagliare le spese, il conto finale sballa.
Ma Letta non aveva annunciato più volte, dopo i summit a Bruxelles, che avevamo ottenuto deroghe, flessibilità, 10-15 miliardi per gli investimenti e 2 per il mercato del lavoro?
Quasi tutta propaganda. È un po’ più semplice usare fondi (già stanziati) per infrastrutture e per combattere la disoccupazione giovanile, ma sui saldi di bilancio finali non c’è mai stata alcuna concessione.
Perché il parametro del deficit è così importante per l’Italia?
Siamo un Paese con un debito altissimo (2.072 miliardi, oltre il 130 per cento del Pil) e con una crescita bassissima da anni. L’unico modo per dimostrare ai nostri creditori che siamo in grado di sostenere l’enorme montagna dell’indebitamento è avere un deficit basso. Perché il deficit misura la differenza tra entrate e uscite nell’anno in corso (noi siamo in avanzo primario, cioè il Tesoro incassa più tasse di quante spese finanzia, ma al conto poi deve aggiungere circa 85 miliardi di euro di interessi sul debito).
L’Italia rischia di tornare sotto procedura d’infrazione per deficit eccessivo?
Purtroppo sì. La Commissione europea il 29 maggio scorso ha spostato l’Italia nella lista dei Paesi virtuosi, chiudendo la procedura d’infrazione per deficit eccessivo aperta nel 2009. Quella decisione si basava però sui conti del 2012 e sulle promesse di Letta per il 2013. Ora rischiamo di finire come Malta, che dopo soli sei mesi dalla riabilitazione è tornata nella lista nera dei Paesi con deficit fuori controllo. Le conseguenze di una procedura sono di due tipi: minore credibilità sui mercati (quindi sale il tasso di interesse da pagare sul debito) e limitazioni all’uso dei fondi comunitari. Se il problema persiste, arrivano multe.
Perché ci hanno raccontato per tanto tempo che il problema della finanza pubblica era risolto?
Esigenze della politica. Letta doveva vendersi qualche successo europeo e illudere il Pdl che ci fossero soldi da spendere, Berlusconi e i suoi avevano promesse da mantenere (soprattutto sull’Imu), il Pd non aveva intenzione di confermare la sua fama di partito delle tasse e dei sacrifici, ogni problema sollevato da Mario Monti sarebbe stato percepito come un’ammissione di fallimento del suo esecutivo tecnico.
Cosa succederà adesso?
Entro il 20 settembre, cioè venerdì prossimo, il governo dovrà presentare la nota di aggiornamento al Def, il documento di economia e finanza. E adatterà le previsioni di crescita del Pil da -1,3 a -1,7. Confermerà il rispetto del tetto al 3 per cento ma promettendo un intervento correttivo. Entro il 15 ottobre Letta e Saccomanni dovranno mandare a Bruxelles una sorta di bozza della legge di Stabilità in cui sono tenuti a spiegare come intendono mantenere gli impegni presi. Poi a novembre arriveranno le previsioni economiche d’autunno della Commissione europea: se Bruxelles non dovesse avere abbastanza elementi per considerare credibili le promesse italiane e dovesse certificare un deficit sopra il 3 per cento, sarebbe il primo passo di una nuova procedura d’infrazione. Con immediata perdita di credibilità del-l’Italia sui mercati finanziari.
Quali sono i piani di Letta?
Il governo conta di spendere il tesoretto lasciato da Monti. Secondo i documenti ufficiali, nel 2013 l’Italia pagherà in tutto 90 miliardi di interessi sul debito, nel 2014 95 e nel 2015 100. Ma se lo spread resta basso, queste cifre si possono rivedere al ribasso di molto. E la differenza si può spendere per trovare copertura a interventi come la riduzione del cuneo fiscale. È chiaro che è una scommessa: se poi il costo del debito dovesse tornare a salire, saremmo completamente senza cuscinetti protettivi.