Maximilian Cellino; Morya Longo; Walter Riolfi, Il Sole 24 Ore 19/9/2013, 19 settembre 2013
WALL STREET VOLA AL RECORD STORICO
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Tutto confermato, tutto da rifare. La Federal Reserve lascia a 85 miliardi di dollari mensili il budget previsto per il riacquisto di asset statunitensi e prende in contropiede gli analisti, che si attendevano invece una sforbiciata (il cosiddetto «tapering») di almeno 10 miliardi. Gli operatori tirano un sospiro di sollievo da un lato (il flusso di liquidità a sostegno dei mercati resta invariato) e si segnano dall’altro sul calendario la data del successivo meeting della Banca centrale Usa, previsto a fine ottobre.
I primati di S&P e Dow Jones
C’è da giurare che da qui ai prossimi 40 giorni si ripeterà il tira e molla sul «quantitative easing 3» a ogni dichiarazione dei banchieri di Washington e a ogni diffusione di dati macroeconomici Usa (in particolare quelli sulla disoccupazione). Intanto però i mercati «brindano» allo scampato pericolo: Wall Street accelera (gli indici S&P 500 e Dow Jones raggiungono i rispettivi nuovi record storici); salgono i titoli di Stato Usa (e il rendimento del T-Bond decennale scende al 2,68%, minimi da metà agosto); si rafforza l’euro che tocca i massimi da febbraio superando quota 1,35 dollari.
Gli emergenti rialzano la testa
Sempre sul mercato valutario riprendono vigore le divise dei Paesi emergenti – rupia indiana, peso messicano e rand sudafricano fra tutte – fortemente penalizzate da alcuni mesi a questa parte da chi aveva anticipato una riduzione delle misure straordinarie di sostegno da parte di Ben Bernanke e soci. Risale anche l’oro (+4% a 1.360 dollari l’oncia), semplicemente perché si pensa che il mancato «tapering» della Fed possa dare una spinta all’inflazione, e avanzano un po’ tutte le materie prime (dal petrolio a quelle industriali), se non altro di riflesso al passo indietro del biglietto verde.
Euforia da «droga» monetaria
La prospettiva di una dose invariata di «droga» monetaria almeno fino a tutto ottobre (mentre già si pensava di dover iniziare a tirare la cinghia dopo quasi 5 anni di iniezioni di liquidità) autorizza questa sorta di euforia improvvisa fra gli operatori e per il momento spedisce in secondo piano le notizie non proprio positive che la Fed ha contestualmente dato sull’economia reale Usa, visto che sono state riviste al ribasso le stime sulla crescita tanto per quest’anno (2-2,3%), quanto per il prossimo (2,9-3,1%).
La lunga attesa europea
Nel gioco delle attese, le Borse europee (che avevano chiuso quando ancora i banchieri Fed erano riuniti per prendere la decisione) avevano mostrato un cauto ottimismo: a Milano il Ftse Mib aveva terminato in progresso dello 0,3% con Buzzi (+5,7%) in evidenza grazie a un report favorevole di Goldman Sachs e Mediaset (-3,1%) in retromarcia in attesa della pronuncia della Giunta per le immunità in merito alla decadenza di Silvio Berlusconi da senatore. Leggermente meglio avevano fatto Madrid (+0,78%), Parigi (+0,6%) e Francoforte (+0,45%), che il giorno precedente, del resto, si erano mostrate più prudenti.
Match pari fra Roma e Madrid
Sul fronte del reddito fisso era invece proseguito il duello Italia-Spagna, appaiate sui decennali (4,40%) secondo i terminali Bloomberg che utilizzano ancora il BTp maggio 2023 come benchmark e distanziate di 12 punti base (a favore di Madrid) secondo Reuters, che invece prende già come metro di paragone il titolo italiano con scadenza marzo 2024. La vera notizia, sotto questo aspetto, era stata il ritorno del tasso del Bund decennale tedesco al 2%, nel giorno in cui Berlino ha collocato sul mercato (con rendimenti allo 0,22% contro lo 0,23% di un mese fa) 4,22 miliardi di euro di Schatz 2 anni. Un progresso che, fra l’altro, ha contribuito alla riduzione dello spread fra BTp e Bund ai minimi da un mese a questa parte fino a 240 punti base (255 punti se si utilizza il «benchmark» più penalizzante per l’Italia).
Ora si torna in un certo senso al punto di partenza, con i mercati concentrati (in attesa dell’inevitabile ritorno delle «scommesse» sulla Fed) sull’esito delle imminenti elezioni tedesche: ma con la mossa a sorpresa di Bernanke, il risultato delle urne (con l’eventuale riconferma di Angela Merkel alla guida del Paese) potrebbe non essere proprio quel «market mover» che fino a qualche giorno fa si pensava.
Maximilian Cellino
MOSSA PER BLOCCARE IL RIALZO DEI TASSI–
Il "doping" monetario non si arresta. La Fed continuerà a foraggiare i mercati finanziari con 85 miliardi di dollari freschi di stampa ogni mese. Il motivo di questa decisione è chiaro: la Fed sa che ripresa economica Usa è ancora troppo squilibrata e fragile. E, soprattutto, sa che è ancora eccessivamente legata all’andamento di Wall Street e dei titoli di Stato. A preoccupare la Banca centrale sono proprio i rendimenti dei Treasury: quelli decennali sono infatti saliti dall’1,39% di maggio al 2,93% dei primi di settembre. Questo ha causato il rincaro di tutti i tassi di mercato negli Stati Uniti negli ultimi mesi, mettendo a repentaglio la fragile ripresa economica. Ma con la decisione di ieri, e il conseguente crollo dei rendimenti decennali al 2,68%, Ben Bernanke ha rimesso le cose a posto.
Il problema era per esempio preoccupante sul mercato immobiliare, che dovrebbe essere uno dei possibili traini della locomotiva economica Usa. Alla Fed non è sfuggito il fatto che i tassi medi dei mutui trentennali siano saliti dal minimo del 3,36% di fine 2012 al 4,48% (dati Bloomberg). Questo rincaro, legato direttamente all’aumento dei rendimenti dei T-Bond a lunga scadenza, rischiava dunque di compromettere la ripresa del mercato immobiliare. E i primi segnali, sebbene il settore resti in crescita, già si vedevano: il rifinanziamento dei mutui è sui minimi dal 2009. Brutto segno in prospettiva per il mattone. Da non lasciare indifferente la Fed.
Problema analogo c’era sui prestiti agli studenti, che per legge sono indicizzati direttamente ai rendimenti dei T-Bond decennali. Stiamo parlando di un mercato che in America vale 994 miliardi di dollari, secondo i dati della Fed di New York, che soffre per insolvenze (pari al 10,9% del totale erogato) maggiori rispetto a tutte le altre forme di credito alle persone fisiche. Alzare i rendimenti dei T-Bond decennali significava dunque soffocare ulteriormente gli studenti e creare un problema crescente per le banche. Non è un caso che vari istituti (tra cui JP Morgan) recentemente abbiano deciso di uscire da questo mercato. Anche per questo la Fed non poteva restare indifferente al rincaro dei tassi.
Ma anche il sistema industriale Usa e la stessa Wall Street rischiavano di soffrire con i tassi dei T-Bond in repentina ascesa. Dopo aver toccato a maggio il minimo degli ultimi 17 anni al 3,35% (dati Bloomberg), il tasso medio dei finanziamenti ottenuti dalle aziende quotate a Wall Street è risalito al 4,3%: sebbene si tratti di un livello inferiore alla media pre-crisi (5,7%), un aumento così repentino rischiava di mettere in difficoltà le aziende. E, soprattutto, rischiava di ridurre la convenienza per le imprese ad elargire dividendi e ad effettuare buy-back azionari (spesso finanziati a debito) che quest’anno hanno battuto tutti i record. Le aziende che hanno pagato cedoloni o riacquistato azioni fino ad oggi sono state infatti premiate in Borsa, con performance mediamente superiori agli indici del 27% dal 2009. Se i tassi d’interesse diventassero più onerosi, però, la festa rischierebbe di guastarsi. E con essa la performance stellare di Wall Street.
Bene inteso: se la Borsa Usa riducesse l’esuberanza e togliesse un po’ di panna montata sarebbe solo un bene. Il problema è che dall’esuberanza dei mercati finanziari dipende buona parte della fragile ripresa economica attuale: sgonfiare Wall Street e far salire i tassi dei titoli di Stato significherebbe insomma cancellare in buona parte l’illusione di avere superato la Grande crisi. La Fed ha deciso di non farlo. Ha preferito continuare a "drogare" i mercati con la liquidità. Nella speranza che la ripresa economica zoppa diventi un giorno ripresa vera.
m.longo@ilsole24ore.com
Morya Longo
ORA LA EXIT STRATEGY DIVENTA PIÙ DIFFICILE–
Se in apparenza non è successo nulla nell’incontro della Fed, perchè tutto è rimasto come prima, anzi come prima del maggio scorso, non può sfuggire una fondamentale novità: la politica monetaria della banca centrale è più sensibile alle reazioni dei mercati che ai fondamentali dell’economia e alle teorie monetarie, ammesso che queste ultime abbiano ancora un seguito. Come corollario, si potrebbe aggiungere che la Fed è più vicina di quanto si pensi all’amministrazione americana, al punto che la candidatura di Janet Yellen alla presidenza della banca centrale ha ricevuto una sorta di appoggio ufficioso da esponenti del partito Democratico e da funzionari della Casa Bianca proprio pochi minuti prima del comunicato del Fomc.
Le argomentazioni con cui la Fed ha lasciato i tassi a zero, e ha promesso di mantenerli tali per un «considerevole periodo», e ha mantenuto inalterati gli acquisti di titoli di Stato e di Mbs sono convincenti: il mercato del lavoro migliora molto lentamente, l’inflazione ha addirittura decelerato, ma i tassi d’interesse sui mutui casa sono saliti fin troppo, con il rischio di frenare una crescita già «moderata». Se fin dallo scorso maggio il messaggio lanciato da Ben Bernanke e da altri membri del Fomc era che il quantitative easing non poteva essere eterno e prima o poi sarebbe stato ridimensionato, quello lanciato ieri è che gli acquisti di titoli resteranno immutati fino a quando non cambieranno le condizioni economiche (occupazione, inflazione, interessi sui mutui). Considerando che il mercato del lavoro Usa è strutturalmente debole e che il tasso di disoccupazione sottostima la gravità del problema, che l’inflazione sembra destinata a restare sotto il 2-2,5% per lungo tempo, il quantitative easing si porrebbe come una soluzione quasi perenne.
A questo punto la variabile più importante diviene il comportamento dei mercati e la Fed (con Bernanke o la Yellen o con Kohn) ne terrà conto. Come ha fatto tra maggio e giugno, quando l’eccessiva esuberanza sul mercato dei bond ad alto rendimento e forse un po’ di effervescenza anche sulla Borsa di Wall Street avevano spinto la banca centrale a lanciare un messaggio di allarme, al fine di evitare l’insorgere di nuove bolle speculative, come nel 2007. Ma i mercati hanno preso quei moniti forse un po’ troppo alla lettera, spingendo i rendimenti del Treasury decennale fino al 3% e facendo raddoppiare quelli del titolo a due anni. L’esuberanza tra i bond societari s’è smorzata, ma gli interessi sui mutui casa sono aumentati di oltre un punto percentuale, sotto la pressione del Treasury a 30 anni volato quasi al 4%.
Rientrato il pericolo di un eccessivo surriscaldamento dei mercati, la Fed può adesso lanciare un messaggio rassicurante che durerà fino a una nuova, eventuale fase di esuberanza. Così facendo, la exit strategy (il cambiamento di rotta in politica monetaria) sembra procedere più con gli strumenti della comunicazione che con quelli della politica monetaria, con la conseguenza di venire continuamente posposta e con il rischio di diventare ingestibile.
Walter Riolfi