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 2013  settembre 16 Lunedì calendario

ECCO LA RIFORMA DEL LAVORO CHE CI FARÀ USCIRE DALLA CRISI

Il prossimo fine settimana si vota in Germania. Vincerà Angela Merkel, e per l’Euro­pa saranno guai. O forse no. Infat­ti, piuttosto che aver paura del nuovo ciclo della Cancelliera di ferro, forse sarebbe più opportu­no adottare gli insegnamenti del­la Germania del passato, con in­telligenza. Contrariamente a quanto è stato fatto, anche di re­cente, in Italia. Seguendo questa chiave si può dire che il governo Letta mostra ancora idee confuse. Se il presi­dente del Consiglio Enrico Letta ha enfatizzato lo spirito di «pace sociale» con cui Confindustria e sindacati sono tornati a parlarsi, per il ministro dell’Economia Fa­brizio Saccomanni, il cosiddetto «Patto di Genova» mostra «un conto della spesa molto elevato e immediatamente posto a carico del bilancio statale con poco reali­smo ». Posizioni in contrasto l’una con l’altra, che segnano la distanza non solo tra premier e ministro dell’Economia ma an­che governo e parti sociali. Per non parlare di chi, data la scarsità di risorse, azzarda anche uno scambio riduzione del cuneo fi­scale- aumento dell’Iva. Come si farà quadrare il cerchio quando sappiamo bene che il non au­mento dell’Iva dal 1˚ ottobre 2012 è fuori discussione? Confin­dustr­ia e i sindacati non ipotizza­no alcun tipo di copertura per un dossier che richiede dai 40 ai 50 miliardi. Ci spieghino: come mai hanno proposto solo incentivi e sgravi fiscali a carico dello Stato e non anche misure di vero stimo­lo all’economia, quali l’aumento dell’orario di lavoro, l’aumento della produttività, la riduzione delle festività retribuite e la riorg­a­nizzazione degli ammortizzatori sociali, sul modello delle riforme tedesche dei primi anni 2000? Se tengono veramente a cuore la cre­scita e l’occupazione in Italia, af­frontare questi nodi è ormai indi­lazionabile.
La riforma del mercato del lavo­ro, con l’obiettivo di eliminare le rigidità strutturali che caratteriz­zano l’economia italiana può di­ventare una delle chiavi di volta per uscire dalla crisi.L’urgenza di tale riforma è ancora maggiore se si pensa che l’Italia non può più utilizzare la svalutazione compe­titiva che rendeva i prodotti più convenienti sui mercati esteri.
Il governo, pertanto, ha solo due leve alternative: abbassare la tassazione diretta, che rientra co­me c­omponente nella formazio­ne dei prezzi finali; oppure creare un sistema di norme che consen­tano la piena flessibilizzazione dei salari, in maniera che cresca­no ad un tasso moderato, senza creare pericolose spirali inflazio­nistiche, solo perché aumenta la produttività. È quanto è avvenu­to in Germania nei primi anni 2000 con le riforme del mercato del lavoro e del welfare state pro­mosse dal governo Schroeder e note a tutti come le «quattro rifor­me Hartz », dal nome del diretto­re risorse umane di Wolkswagen, che le ha ispirate. Ed è quanto si stava facendo in Italia con il gover­no Berlusconi n­ella legislatura co­minciata nel 2008 e bruscamente interrotta nel 2011 in tema di rifor­ma del sistema di contrattazione salariale collettiva. Grazie a que­sti provvedimenti, durante la cri­si il tasso di disoccupazione nel nostro paese è rimasto ragione­volmente basso. Al contrario di quanto avvenuto, come vedre­mo, con le controriforme del go­verno Monti nel 2012.
All’appellomancavaungeneri­co completamento della riforma delle pensioni di anzianità e di re­visione delle norme che regola­no il licenziamento dei dipenden­ti. Questi due punti sono stati og­getto dell’azione del governo Monti, i cui provvedimenti han­no prodotto più costi che benefi­ci. Si pensi al problema degli eso­dati­e all’aumento della disoccu­pazione, soprattutto giovanile, nel 2012, con effetto trascinamen­to anche nel 2013. I provvedimen­ti del ministro tecnico Fornero hanno allontanato il nostro pae­se d­al mainstream europeo e ne­anche i blandi decreti dei primi 4 mesi di attività del ministro tecni­co Giovannini sono riusciti a por­re rimedio.
Eppure la soluzione per uscire dall’avvitamento l’abbiamo vi­sta: tra il 2002 e il 2005, le già citate «riforme Hartz» hanno riguarda­to 4 tematiche principali: introdu­zione di nuove forme di contratti di lavoro ( mini jobs e midi jobs ); previsione di incentivi per inizia­re un’attività in proprio (pro­gramma Ich-AG ); incentivazio­ne del la­voro flessibile e semplifi­cazione del licenziamento; rifor­ma del collocamento; revisione deisussidididisoccupazione.Es­se scatenarono un’ondata di pro­teste nella base progressista del Spd, con la ribellione guidata dai sindacati. Il cancelliere Schroe­der crollò subito nei sondaggi, perché aveva tradito la promessa elettorale di stimolare l’econo­mia senza interventi di riduzione sul welfare state . L’opposizione conservatrice, guidata da Angela Merkel,incalzò l’esecutivo sotto­lineando come le riforme previ­ste fossero comunque troppo ti­mide.
Il primo impatto delle 4 rifor­me Hartz fu fallimentare: i costi dei sussidi di disoccupazione au­mentarono vertiginosamente, aumentò a più di 5 milioni il nu­mero dei disoccupati. Il 2003 si chiuse in recessione, e nel 2004 e nel 2005 aumentò il rapporto defi­cit/ Pil. La Germania, insieme al­la Francia, sforò il Patto di Stabili­tà, che prevedeva sanzioni per gli Paesi dell’eurozona che non ri­spettavano la regola del deficit massimo al 3% (ma Gerhard Schroeder sosteneva che gli obiettivi di bilancio «non doves­sero essere interpretati in modo statico»). In seguito, la Germania si riprese e si parlò di un «nuovo miracolo del lavoro»tedesco.Og­gi lavorano 42 milioni di persone (record assoluto), e fra il 2005 e og­gi la disoccupazione in Germa­nia è scesa del 6% e il reddito me­dio delle famiglie tedesche è sali­to di 10 punti. La Germania cre­sce stabilmente più dell’Eurozo­na dal 2006, con la sola eccezione del 2008, quando la crisi finanzia­ri­a ha colpito in modo severo il si­stema finanziario tedesco (sap­piamo anche perché).
Ebbene, il governo italiano do­vrebbe avviare una seria riflessio­ne sul modello tedesco, con le sue luci e le sue ombre, e intra­prendere un ciclo di riforme che sia finalmente strutturale e non guidato solo da condizionamen­ti sindacali. Ma la differenza fra Italia e Germania è proprio qui: cosa sarebbe successo nel nostro paese se a progettare il pacchetto delle riforme del mercato del la­voro fosse stato il direttore del per­sonale della Fiat?
E ancora, avevamo proprio bi­sogno della stabilizzazione dei precari nella Pubblica ammini­str­azione come segnale forte di ri­formismo? Se la Spagna ha azze­rato il suo differenziale sui titoli decennali rispetto all’Italia uscendo dalla recessione, men­tre noi ne siamo dentro ancora fi­no al collo, non sarà perché la Spa­gna ha finalmente riformato il suo mercato del lavoro in chiave tedesca e noi no? Ecco, questo è il riformismo di cui ha bisogno il no­stro paese, su cui la nostra grande coalizione dovrebbe misurarsi. Altro che dilaniarsi per la deca­denza del senatore Berlusconi.