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 2013  settembre 15 Domenica calendario

ILDA BOCCASSINI

Si è fatta bionda, da rossa in­cendiaria che era. Ed è di­ventata più riflessiva. Ilda Boccassini ammette quel che molti suoi colleghi non direbbe­ro mai, nemmeno sotto tortura: «Certi pm hanno usato il loro la­voro per altro ». Una tesi che ver­rebbe controfirmata immedia­tamente dai militanti berlusco­niani, ma che viene declassata ala voce demagogia da buona parte della corporazione toga­ta. E invece no: Ilda la ex rossa, la pm degli interminabili processi a Cesare Previti, la protagonista del caso Ruby e di accesi duelli con il Cavaliere, rompe il tabù. È mancata un’autocritica che la categoria «doveva fare e non ha fatto dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». Ecco, dopo aver messo nel mi­rino la classe dirigente di que­sto Paese, ora il capo della pro­cura antimafia di Milano si os­serva allo specchio e nota che anche la magistratura non è un concentrato di anime pure, ma è attraversata dalle grandi ru­ghe del potere. Calcoli persona­listici. Ubriacatura da mass me­dia. Tentazioni politiche.C’è da stropicciarsi gli occhi, ma fino un certo punto. L’intransigente e a tratti quasi apocalittica Boc­cassini è sempre stata un caso a parte. Polemizzava con Di Pie­tro e il pool ai tempi di Tangento­poli, ha incenerito di recente An­tonio Ingroia, ormai con un pie­de nell’agone elettorale: «Co­me può un piccolo magistrato come lui paragonarsi a Giovan­ni Falcone? Si vergogni».
Insomma, la ruvida pm non è una che possa essere etichetta­ta. Sfugge ad ogni classificazio­ne ed ha un temperamento a tratti anarchico, spesso contro­corrente. Dunque coglie l’occa­sione giusta, - la presentazione del libro L’onere della toga di Li­onello Mancini- per fare il con­tropelo al mondo cui appartie­ne. Siamo alla Fondazione Cor­riere della Sera , al suo fianco c’è il procuratore di Roma Giusep­pe-Pignatone e a porre le doman­de c’è, oltre a Mancini, il diretto­re del quotidiano di via Solferi­no Ferruccio de Bortoli. È pro­prio De Bortoli a far scoccare la scintilla introducendo la rifles­sione s­ul tratto di strada convul­so che l’Italia ha percorso da Ma­ni pulite in poi, e dunque toccan­do il nervo scoperto del «ruolo eccessivo di supplenza» svolto da alcune procure in questi vent’anni. «Non è una patolo­gia della magistratura - rispon­de lei - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il lo­ro lavoro per altro». La parola supplenza non le piace, le sta stretta, secondo lei il vocabolo è sbagliato e però, per far capire come la pensa, il magistrato tor­na al periodo drammatico del ’92-’93,subito dopo le stragi ma­fiose: «Io stavo in Sicilia, vivevo in hotel bunkerizzati, con i sac­chetti di sabbia e a proteggerci soldati che avevano l’età di mio figlio. Poi venivo qua a Milano, a salutare i colleghi, e vedevo le te­lecamere, i giornalisti, le mani­festazioni a loro favore». Ma sì, i girotondi, anche se allora non si chiamavano così, e le urla sotto le finestre del palazzo di giusti­zia: «Di Pietro-Davigo-Colom­bo- andate fino in fondo». E qui scatta a sorpresa la presa di di­stanza da quel clima di esalta­zione: «Ho provato una cosa ter­ribile. Non è l’approvazione del­la gente che mi deve spingere ad andare avanti, ma fare bene il mio mestiere». Lontano da pulpiti, comizi e proclami. Gira e rigira, la pm più famosa d’Ita­lia si smarca dagli eroi di Mani pulite e dai tanti allievi, da De Magistris a Ingroia, che hanno trasformato il manipulitismo in una specie di rivoluzione per­manente. E hanno capitalizza­to la popolarità nell’urna. Anzi, uno dei simboli del giustiziali­smo italiano invita la sua parte all’esercizio più difficile: «C’è stata una conflittualità talmen­te alta» che i giudici hanno pen­sato solo a combattere. Ma avrebbero dovuto guardarsi al­lo specchio: è l’autocritica che la magistratura «doveva fare non ha fatto dopo la morte di Fal­cone e Borsellino». Tocca a lei vent’anni dopo riconoscere la necessità di quella requisitoria che fin qui è mancata.