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 2013  settembre 19 Giovedì calendario

SALARI BASSI, TANTO EXPORT. LA RICETTA CINESE NON PAGA PIU’

Il bello di Angela Merkel è che non dà noia agli elettori. Capì che doveva fare così nel 2005, quando quasi perse elezioni già vinte perché si era impegnata su un programma di riforme ambiziose e incomprese. Da allora non si può dire che soffi per il cambiamento: quando le cose vanno bene, o abbastanza bene, perché disturbare la magia? Anche nella gestione della crisi finanziaria europea, i suoi due atti sono stati salvare l’euro e allo stesso tempo non dare pensieri ai tedeschi. È il positivo e il limite della democrazia e di una leader con i nervi saldi. In altri regimi, cambiare le cose sotto i piedi dei sudditi può essere una tentazione più forte. Non è però detto che abbia sempre la meglio l’impostazione narco-democratica. Frau Merkel potrebbe doversene rendere conto.
Dopo le elezioni di domenica prossima, che la buona mamma dei tedeschi ha ottime chance di vincere, la Germania dovrà infatti curare la sua Sindrome cinese. Non è l’ossessione del pericolo giallo, paura che altri Paesi hanno in dose molto più massiccia. È che la superpotenza economica europea soffre della stessa malattia del gigante asiatico. Ambedue i Paesi hanno un lato del loro modello economico simile: che non può funzionare per sempre. La differenza è che la leadership di Pechino — Xi Jinping e Li Keqiang — ha riconosciuto il problema e prova a correggerlo. La signora Merkel (come tutti gli altri politici della Germania) vive invece in uno stato di negazione. Il guaio è questo: non si può vivere per sempre solo di esportazioni e, per essere competitivi sui mercati mondiali, di bassi salari.
La notevole performance economica tedesca spesso è attribuita a una superiorità genetica, a un mistero del Dna. Non è così. Non solo è molto spiegabile: ha anche i suoi limiti. Di solito, per illustrare il fenomeno, si portano dati tipo il numero di occupati, 41,8 milioni, record storico, e la percentuale dei disoccupati, 5,3%, meno della metà della media europea del 12,1%. Un successo indiscutibile. Ci sono altri numeri, però, che aiutano a spiegare cos’è successo all’economia dalla riunificazione del 1990. Nel 2012, la Germania ha esportato per la cifra record di 1.110 miliardi, seconda solo alla Cina: si tratta di un quarto delle esportazioni di tutta l’Eurozona e dell’8,7% di quelle globali. Il surplus esterno è stato di 188 miliardi (il 7% del Prodotto interno lordo), la cifra in assoluto maggiore al mondo. Metà della crescita del Paese l’anno scorso è venuta dalle esportazioni. Eccezionale, si deve dire.
Però. Però dietro questi numeri c’è una realtà complessa. Certo le Mittelstand , le piccole e medie imprese di enorme successo che conquistano i mercati mondiali assieme ai grandi gruppi in settori come i macchinari, la chimica, l’auto: sono forze formidabili con prodotti richiesti soprattutto nei Paesi emergenti. Ma quello che più conta è la competitività di queste aziende. Che è stata raggiunta soprattutto attraverso una compressione dei salari.
È successo che all’inizio del secolo i potenti sindacati si sono accorti che le imprese stavano decentrando nei Paesi dell’Est europeo, oltre che in Cina, dove il costo del lavoro era più basso. La disoccupazione era così arrivata a toccare l’11,7% nel 2005 (5,2 milioni rispetto ai 2,9 di oggi). In cambio della salvaguardia dei posti di lavoro, hanno accettato di moderare in misura impressionante i salari: il Mitbestimmung , che permette ai sindacati di sedere nei consigli di amministrazione delle grandi aziende, ha aiutato il processo. Il risultato è che il costo del lavoro per unità di prodotto — una misura della competitività — che negli anni Novanta era tra i più alti in Occidente oggi è in assoluto il più basso tra quelli dei Paesi concorrenti: fatto cento il 2000, è poco sopra a 105 (dati 2012 dell’Ocse), mentre in Italia è a 135, in Gran Bretagna a 137, in Francia a 128, negli Stati Uniti a 122. E’ così che la Germania ha risposto alla creazione dell’euro e alla necessità di diventare più competitiva nel mondo globale: con quella che si chiama svalutazione interna, cioè compressione dei salari e dunque dei consumi.
Più di un economista ritiene che questa sia stata la base principale del miracolo tedesco di questi anni. In parallelo, sono arrivate le riforme del mercato del lavoro del 2003-2004 effettuate dal governo rosso-verde di Gerhard Schröder. In sostanza, sono stati introdotti elementi di flessibilità ma, soprattutto, si è puntato a portare nel mercato del lavoro coloro che ne stavano ai margini e vivevano di sussidi: stare a carico dello Stato, oggi, è molto meno redditizio di dieci anni fa. E’ questo che ha permesso di aumentare il numero degli occupati. Oggi, 7,5 milioni di tedeschi, soprattutto studenti e casalinghe, hanno un «Minijob», un posto di lavoro che permette di guadagnare fino a 450 euro senza essere tassati. Così come gli 800 mila lavoratori a tempo determinato, una figura contrattuale che fino al 1990 non si conosceva quasi. Oggi, coloro che in Germania lavorano per un «basso reddito» — cioè per un salario inferiore ai due terzi della media nazionale — sono più del 20% del totale.
Ora, però, i lavoratori vogliono vedere ricompensati i loro sacrifici. L’anno scorso, il sindacato metalmeccanico Ig Metall ha strappato un aumento del 4,3% in 13 mesi, il più alto da vent’anni. E per la prima volta da tempo il monte salari nel 2012 è cresciuto dello 0,6% più dell’inflazione. E’ che il modello di salari e consumi compressi prima o poi deve finire. Esattamente come in Cina, dove Xi, Li e il partito hanno deciso di passare senza tante storie da un’economia fondata sulle esportazioni a una fondata sui consumi interni. Impresa enorme nell’Impero di Mezzo, in teoria meno drammatica in Germania. Non è solo questione di aumentare i salari: processo necessario. Si tratta anche di aprire il mercato interno dei servizi alla concorrenza, cioè di favorire l’economia non più solo nell’export ma anche attraverso un’offerta domestica — nel commercio; nei servizi finanziari, legali, burocratici; nel settore della casa; e di ridurre le tasse. Limiti seri della Germania che Frau Merkel finora non si è sognata di toccare, sempre per non dare noia all’elettorato.
Non è che i tedeschi smetteranno di esportare. E’ vano, e in fondo ingiusto, chiederglielo. E i politici di Berlino non hanno intenzione di fare volontariamente riforme per cambiare modello di crescita. La società di consulenza McKinsey, anzi, prevede che entro il 2025 le esportazioni tedesche cresceranno dell’80% e peseranno per il 65% del Prodotto interno lordo (contro il 50% di oggi). Ma è pericoloso, se succedesse, sarebbe un guaio serio. Per l’Europa, che difficilmente resisterebbe a un colosso sempre più competitivo e aggressivo sui mercati. Per i rischi che comporta per la Germania essere esageratamente dipendente dai mercati esteri. Ma anche per gli elettori della cancelliera. E’ infatti vero che i tedeschi non hanno una tradizione rivoluzionaria ma, per quanto giustamente patriottici, difficilmente possono accettare sacrifici senza fine. Se nei suoi frequenti viaggi (commerciali) a Pechino Frau Merkel chiedesse consiglio al compagno Xi…
Danilo Taino