Angelo Bolaffi, Corriere della Sera 19/09/2013, 19 settembre 2013
IL RISCATTO DEL «MODELL DEUTSCHLAND». COSI’ IL GRANDE MALATO D’EUROPA HA SALVATO IMPRESE E STATO SOCIALE
Oggi la Germania è una nazione ammirata e invidiata (e forse anche temuta). Non è certamente il migliore dei mondi possibili ma «solo» il meno peggio tra i sistemi sociali europei realmente esistenti, ad eccezione forse di quello svizzero e svedese. Eppure, all’inizio di questo secolo-millennio la Repubblica Federale era «il malato d’Europa», così venne definita dall’Economist . Un paese in crisi che non sembrava in grado di poter far fronte dopo il traumatico shock della riunificazione alla duplice sfida posta dalla globalizzazione e dalla costruzione dell’unità europea. Basso tasso di crescita, alta disoccupazione, debito pubblico fuori controllo a fronte di una preoccupante disaffezione degli investimenti privati. Com’è stata possibile questa prodigiosa trasformazione, quali le ragioni di questa straordinaria e vincente metamorfosi?
Esse sono di duplice natura: in primo luogo storico-strutturali. Hanno cioè a che fare con quello che viene definito il Modell Deutschland: «La forza che fa oggi della Germania un punto di riferimento della politica europea, nei grovigli di una sconvolgente e fantomatica crisi finanziaria — secondo Claudio Magris — ha origini antiche». In quel modello renano, che «rigorosamente capitalistico e alieno da qualsiasi tentazione di terze vie, si distingue decisamente da quello anglosassone e specialmente americano (..). È una tradizione capitalistica che valorizza il risparmio, che non abbandona la produzione (anzi la privilegia) per la speculazione (…). Una tradizione che ha visto i sindacati contribuire sotto vari aspetti alla gestione e ha elaborato un sistema di previdenze, pensioni, assistenza sanitaria che ha creato un mondo decente senza cedere troppo agli abusi assistenzialistici».
È infatti la Sozialpartnerschaft a costituire il fondamento del Modell Deutschland : un partnerariato sociale espressione di un «compromesso di classe», che assicura un importante ruolo di controllo e partecipazione al sindacato, senza che tale «alleanza dei produttori» istituzionalizzata nella Mitbestimmung (la cogestione) risulti paralizzante dei processi decisionali da parte del management o sia da ostacolo all’introduzione delle necessarie innovazioni produttive nelle aziende.
Ma senza la lungimiranza di tempestive e spesso «impopolari» decisioni di riforma dell’economia e della società , questa è la seconda ragione del «nuovo miracolo tedesco», il Modell Deutschland non avrebbe retto all’urto della «grande trasformazione» seguita alla caduta del Muro di Berlino che ha segnato la nascita dell’età del mondo globale, esattamente come duecento anni prima l’89 francese aveva tenuto a battesimo la nascita in Europa moderna e dell’opinione pubblica democratica. Il grande merito dell’Agenda 2010, voluta dal governo rosso-verde guidato da Gerard Schröder, è consistito nell’aver avviato la più radicale riforma dello Stato sociale nella storia del secondo dopoguerra tedesco e una strutturale riconversione del sistema economico-produttivo della Germania. Questo ha significato non solo rompere con una consolidata tradizione di relazioni industriali, ma ridisegnare il rapporto tra diritti dei cittadini e compiti dello Stato. Si è trattato evidentemente di una decisione molto difficile per un leader della Spd, il partito socialdemocratico tedesco che aveva fatto della tutela dalla «culla alla bara» dei diritti sociali acquisiti la propria ragione esistenziale.
La radicale riforma alla quale Schröder ha sottoposto il Sozialstaat tedesco, portata a termine salvo aggiustamenti marginali dalla Grosse Koalition guidata da Angela Merkel dal 2005 al 2009, ha dato i suoi frutti: oggi la Germania è il paese leader dell’export mondiale e vanta al tempo stesso un bassissimo tasso di disoccupazione giovanile a differenza di quanto accade nel sud dell’Europa. Questo non significa affatto che anche in Germania, come in tutti i Paesi industrializzati dell’Occidente, non si sia prodotta in questi anni una drammatica divaricazione sociale a danno del ceto medio e delle classi più deboli. Salvo che questo è avvenuto in una forma socialmente molto più tollerabile di quanto sia successo altrove, proprio grazie al buon funzionamento dei sistemi di sicurezza sociale e di regolazione del mercato del lavoro. Infatti le riforme volute da Schröder hanno cambiato quantitativamente, ma non stravolto qualitativamente il Modell Deutschland . Per quanto riformato, dunque, il «modello tedesco» è risultato in grado di tenere assieme gli imperativi sistemici del mercato e quelli etici della ragione sociale, coniugando sapientemente la necessaria flessibilità con la garanzia della difesa del posto di lavoro, facendo perno su un orario flessibile, sul part-time e gli straordinari. E puntando sulla mobilità attiva, grazie alla quale i lavoratori, anche nei periodi di crisi, migliorano la loro formazione e le proprie conoscenze. Tale mobilità funziona, per usare una felice espressione di Romani Prodi, come «un ascensore sociale e professionale che viene soprattutto utilizzato all’interno dell’azienda e contribuisce (…) alla formidabile e sorprendente affermazione dell’industria tedesca nel mondo».
Il Modell Deutschland è dunque risultato alla prova dei fatti non solo in grado di rispondere alle sfide economiche del mercato globale molto meglio sia del modello anarchico-conflittuale di Paesi mediterranei, che di quello liberal-manchesteriano dei paesi anglosassoni, ma anche di salvaguardare al tempo stesso le conquiste economiche dei lavoratori e i loro diritti sociali e di libertà. Per questo è possibile sostenere, come del resto esplicitamente indicato dal Trattato di Lisbona, che l’economia sociale di mercato, la segreta «teologia politica» del modello Germania, rappresenti il paradigma al quale dovrà necessariamente orientarsi qualsiasi politica europea, che voglia salvaguardare le conquiste sociali, economiche e normative raggiunte dal Vecchio Continente, evitando al tempo stesso che l’Europa si avvii sulla via senza ritorno di un declino strutturale, causato da ragioni demografiche ed economiche.
Angelo Bolaffi