Sergio Romano, Corriere della Sera 19/09/2013, 19 settembre 2013
Storia della Prussia e della Germania
La Germania moderna nacque duecento anni fa, proprio in questi mesi, e fece i suoi primi passi grazie a una mossa degna dell’agilità con cui i Savoia vincevano le loro guerre saltando da un campo all’altro. La Prussia era stata sconfitta da Bonaparte, aveva dovuto consentire alla Grande Armée di attaccare la Russia attraverso il suo territorio e aveva messo 40.000 uomini a disposizione dell’Imperatore. Ma un generale prussiano, Hans von Yorck, strinse con lo zar un patto di neutralità e un geniale uomo di Stato, Heinrich von Stein, stracciò l’accordo con i francesi, riaprì i porti prussiani al commercio con l’Inghilterra, organizzò le due grandi milizie popolari, Landwehr e Landsturm, che nei mesi seguenti avrebbero combattuto la «guerra di liberazione tedesca». Da quel momento la Prussia ritrovò il rango perduto, entrò trionfalmente a Parigi con i vincitori, dette con il feldmaresciallo Blücher un contributo decisivo alla vittoria di Waterloo, firmò con le altre potenze i trattati di Vienna, divenne il più ambizioso degli Stati germanici e un pezzo indispensabile di quel delicato congegno che fu chiamato il «concerto» europeo.
I segni del suo Risorgimento erano già visibili da qualche anno. L’Europa conosceva le teorie filosofiche di Kant e di Hegel, leggeva Goethe e Schiller, non poteva ignorare la vitalità dei circoli filosofici e letterari tedeschi. Uno scrittore, J.P. Richter, disse orgogliosamente che «l’impero della terra appartiene ai francesi, l’impero del mare agli inglesi, l’impero dell’aria ai tedeschi»: un dominio, quest’ultimo, che comprendeva il pensiero, la fantasia, l’immaginazione, la musica il senso della storia, della terra e del sangue. Nella Berlino occupata dai francesi, fra il dicembre 1807 e il marzo 1808, un filosofo, Johann Gottlieb Fichte, aveva pronunciato i suoi «discorsi alla nazione tedesca» e descritto i due principali ingredienti del nazionalismo ottocentesco: una educazione nazionale a spese dallo Stato, fondata sui principi di un pedagogista svizzero, Johann Pestalozzi, e il servizio militare obbligatorio. Germaine de Staël visitò la Germania in quegli anni, ne fu affascinata, la propose come modello ai francesi e agli italiani, la descrisse in un libro del 1810 (De l’Allemagne ) che irritò Napoleone e fu proibito dalla censura imperiale.
Oggi l’irritazione di Napoleone può sembrare profetica e preannunciare il giorno in cui un altro Bonaparte si sarebbe scontrato con la potenza prussiana sul campo di battaglia. Educata secondo i principi di Fichte e la grande riforma scolastica di Wilhelm von Humboldt, modernizzata dal rinnovamento istituzionale di Stein, addestrata all’uso delle armi dai suoi generali e impeccabilmente amministrata dai suoi junker, la Prussia, con una capitale abbellita dall’architettura monumentale di Karl Friedrich Schinkel, continuò ad acquistare autorità, particolarmente nel mondo germanico.
Come per il Piemonte dei Savoia, anche per la Prussia degli Hohenzollern, discendenti dell’Elettore del Brandeburgo, i moti nazionali del 1848 furono una minaccia e un’occasione. La dinastia poteva arroccarsi nella difesa del suo Ancien Régime o, come il Piemonte in Italia, prendere la guida di un grande movimento nazionale germanico. Dopo molte esitazioni Guglielmo IV, come Carlo Alberto, finì per cogliere l’occasione e si spinse sino a promettere la convocazione di un’Assemblea costituente. Vi furono altri moti e altro sangue, ma la Prussia ebbe alla fine la sua costituzione: una Carta destinata a sopravvivere, in buona parte, sino alla Repubblica di Weimar.
La fase successiva — dallo Stato prussiano allo Stato tedesco — cominciò grazie agli avvenimenti italiani. La seconda guerra d’indipendenza nel 1859 e la creazione del Regno d’Italia nel 1861 ebbero, per la Germania, almeno due effetti: indebolirono l’Austria a vantaggio della Prussia e incoraggiarono il movimento nazionale tedesco. L’uomo che ne trasse le conseguenze con incrollabile coerenza, fu Otto von Bismarck, chiamato alla guida del governo prussiano in un momento in cui il Parlamento stava sfuggendo al controllo del sovrano. Bismarck capì che la battaglia per l’egemonia della Prussia in Germania e l’unificazione tedesca esigevano anzitutto l’eliminazione dell’altra Germania, quella di cui l’arciduca austriaco era stato sacro romano imperatore. Può sembrare paradossale, ma l’unità tedesca, dopo la vittoria prussiana contro gli austriaci a Sadowa nel 1866, ebbe per madrina l’Italia. L’esercito italiano fu sconfitto a Custoza, ma impedì che una parte considerevole delle forze austriache venisse schierata contro i prussiani sul fronte settentrionale.
Nel 1870, contro i francesi, Bismarck fu alla testa di una grande coalizione tedesca e poté proclamare la nascita del secondo Reich a Versailles, nel grande salone degli specchi. In sei anni il cancelliere di ferro aveva sconfitto due grandi Stati europei e creato nel mezzo del continente una nuova potenza. Per l’Europa, e in particolare per i francesi, la vittoria della Prussia fu il trionfo di una concezione militaristica della politica internazionale. Ma la denuncia del militarismo prussiano, così frequente nella politica europea sino alla fine della Seconda guerra mondiale, oscura altri aspetti della storia tedesca. Nella seconda metà dell’Ottocento la Germania fu teatro di una rivoluzione industriale, scientifica e sociale comparabile soltanto a quella inglese dei decenni precedenti e molto più importante, sul piano culturale, di quella che trasformò l’economia americana dopo la Guerra di secessione. Il sistema politico non era strettamente parlamentare (il cancelliere rispondeva soltanto all’imperatore) ma negli anni Ottanta adottò provvedimenti sociali d’avanguardia contro la malattia, la vecchiaia e gli incidenti sul lavoro. Fu autoritario, ma non poté impedire che la patria di uno dei più agguerriti eserciti europei avesse anche un partito socialdemocratico che contava 2 deputati nel 1871, 9 nel 1874, 12 nel 1877, 35 nel 1885, 44 nel 1893, 56 nel 1898, 81 nel 103, 110 nel 1913. Per molti anni il futuro del socialismo europeo fu in Germania, non in Francia e in Gran Bretagna. Per molto tempo, sino alla vittoria di Stalin su Trotsky, i bolscevichi russi credettero che la rivoluzione avrebbe messo radici soltanto se fosse scoppiata anche in Germania.
Finché Bismarck rimase al potere, la maggiore preoccupazione della politica estera tedesca fu la conservazione degli equilibri europei. Il clima politico del Paese cambiò quando il nuovo imperatore, poco meno di due anni dopo il suo avvento al trono, volle sbarazzarsi del vecchio «pilota» e lo costrinse a dimettersi. Accadde nel marzo 1890. Guglielmo II aveva trent’anni, era autocratico, impaziente, arrogante. Piuttosto che conservare la potenza tedesca desiderava accrescerla. Esortò i boeri a battersi contro gli inglesi in Sud Africa. Sognò una grande ferrovia da Berlino a Baghdad che avrebbe esteso l’influenza tedesca all’intero Medio Oriente. Impegnò un duello navale con la Gran Bretagna per il dominio degli oceani. Nessuno di questi obiettivi era estraneo alla cultura politica degli Stati europei fra Ottocento e Novecento. Non furono soltanto tedesche le responsabilità della Prima guerra mondiale. Ma lo stile di Guglielmo II privò la Germania di molte delle simpatie che la sua apparizione sulla scena europea aveva suscitato negli anni precedenti.
Terminata la Grande guerra, molti ritrovarono nella Repubblica di Weimar e nella sua straordinaria effervescenza culturale la Germania che avevano amato. Molti capirono il dramma di un popolo che non aveva ceduto, sino alla sconfitta, un solo pezzo del suo territorio nazionale e che aveva dovuto accettare a Versailles un trattato inutilmente umiliante. E molti, infine, sperarono che i suoi leader democratici sarebbero riusciti a spegnere i rabbiosi conati revanscisti e razzisti del nazionalsocialismo di Hitler. Respingo la condanna morale dell’intero popolo tedesco. Ma il genocidio ebraico resta, nella storia della Germania moderna, una macchia difficilmente cancellabile, un pesante retaggio che i tedeschi, anche quelli privi di qualsiasi responsabilità, dovranno portare sulle loro spalle ancora per parecchio tempo.
Non condivido invece altre critiche indirizzate alla Germania. Dalle macerie della guerra è nato un Paese nuovo in cui le antiche virtù (laboriosità, disciplina, senso della programmazione e dell’organizzazione) si sono sommate a quelle della democrazia. Molti dei suoi cancellieri, da Adenauer a Helmut Kohl, da Willy Brandt a Helmut Schmidt e Gerhard Schröder, sono stati un modello politico per il resto del continente. L’unificazione tedesca, dopo il crollo del muro di Berlino, è stata un capolavoro di saggezza politica, un capitolo di storia europea che ricorda Cavour e Bismarck. Capisco che questo Paese serio e operoso non voglia diventare il zahlmeister , l’ufficiale pagatore delle cicale mediterranee che hanno sperperato risorse e vissuto al di sopra dei propri mezzi. Capisco che chieda ai suoi partner serietà e sacrifici. Dopo avere tentato di dominare l’Europa con le armi, la Germania ha oggi il diritto di candidarsi alla guida di un continente finalmente unificato.
Eppure nella politica di Angela Merkel, probabile vincitrice delle prossime elezioni, vi è qualcosa di gretto, miope e opportunistico, forse l’assurdo sentimento che il suo Paese possa continuare a essere prospero e felice se l’Europa diventa, come in passato, una somma di egoismi nazionali. Posso suggerirle di leggere, o rileggere, il libro di Madame de Staël? È quella la Germania di cui abbiamo bisogno.
Sergio Romano