Jean Friedman-Rudovsky, Vice.com 19/9/2013, 19 settembre 2013
GLI STUPRI FANTASMA DELLA BOLIVIA
Per molto tempo, gli abitanti della Colonia di Manitoba hanno pensato che fossero i demoni a violentare le donne. Non sapevano spiegarsi altrimenti come una ragazza potesse svegliarsi tra lenzuola piene di sangue e sperma, senza ricordarsi nulla della notte precedente. O come un’altra si fosse svegliata nuda e ricoperta da ditate su tutto il corpo, pur essendo andata a letto vestita. Non c’era verso di capire perché un’altra ancora raccontasse di aver sognato che un uomo le si era spinto dentro a forza, in un campo—e poi si svegliasse la mattina dopo con dei fili d’erba nei capelli.
Per Sara Guenter, la corda rimaneva un mistero. Ogni tanto si svegliava nel proprio letto con pezzi di corda ancora stretti ai polsi o alle caviglie, e la pelle bluastra e dolorante. Qualche tempo fa sono stata a casa di Sara, una costruzione molto semplice, dipinta per sembrare di mattoni, nella Colonia boliviana di Manitoba. I mennoniti somigliano agli amish nel loro rifiuto di modernità e tecnologia, e la Colonia di Manitoba, come tutte le colonie mennonite ultraconservatrici, è un tentativo collettivo di isolarsi il più possibile da un mondo di infedeli. Una brezza di soia e sorgo soffiava leggera dai campi vicini, mentre Sara mi raccontava di come, dopo gli abusi, a parte quelle corde angoscianti, si svegliasse tra lenzuola macchiate, con un mal di testa lancinante e una paralizzante apatia.
Le sue due figlie, di 17 e 18 anni, se ne stavano appoggiate in silenzio al muro dietro di lei, lanciandomi penetranti sguardi azzurro chiaro. Il male si era insinuato nella loro casa, mi ha detto Sara. Cinque anni fa anche le sue figlie hanno iniziato a svegliarsi tra lenzuola sporche, lamentandosi per il dolore “lì in basso.”
La famiglia ha cercato di serrare la porta; certe notti Sara lottava con tutte le sue forze per rimanere sveglia. A volte chiamavano un fidato operaio boliviano dalla città vicina, Santa Cruz, perché stesse di guardia. Ma inevitabilmente, ogni volta che la loro casa a un solo piano—un po’ isolata dalla strada sterrata—restava incustodita, le violenze si ripetevano (Manitoba non è coperta dalla rete elettrica, quindi di notte è immersa nel buio più totale). “È successo così tante volte che ho perso il conto,” mi ha spiegato Sara in basso-tedesco, l’unica lingua che conosce, come molte donne della comunità.
All’inizio la famiglia non sapeva di non essere l’unica a subire questi attacchi, così ha preferito tenere la cosa per sé. Poi Sara ha cominciato a parlarne alle sorelle. Non appena si è diffusa la notizia “nessuno le ha creduto,” ha raccontato Peter Fehr, il vicino di casa di Sara al tempo degli avvenimenti. “Credevamo mentisse per nascondere una tresca clandestina.” Le richieste d’aiuto della famiglia ai ministri del Consiglio ecclesiastico, il gruppo di uomini che governa le 2.500 persone della Colonia, sono rimaste inascoltate—anche quando i racconti si sono moltiplicati. In tutta la comunità le donne raccontavano di svegliarsi con gli stessi segni: pigiama strappato, sangue e sperma sul letto, torpore profondo. Alcune donne riuscivano a ricordare istantanei frammenti di terrore: rinvenire per un attimo trovandosi sovrastate da uno o più uomini, non riuscire a raccogliere abbastanza forze per urlare o dibattersi. Poi, dissolvenza al nero.
Alcuni l’hanno definita “selvaggia immaginazione femminile”, altri sostenevano fosse una punizione divina. “Sapevamo solo che di notte succedevano cose strane,” ha detto Abraham Wall Enns, che a quel tempo era capo laico della comunità di Manitoba. “Non sapevamo chi fossero. Come potevamo fermarli?” Nessuno sapeva cosa fare, quindi nessuno ha fatto nulla.
Dopo qualche tempo, Sara ha cominciato ad accettare quelle notti come un orribile fatto della vita. Ogni mattina, dopo una violenza, la vita della famiglia riprendeva nonostante i mal di testa lancinanti, si cambiavano le lenzuola e la giornata faceva il suo corso come se niente fosse.
Finché, una notte del giugno 2009, due uomini sono stati arrestati mentre cercavano di penetrare in una casa vicina. I due hanno fatto qualche nome e poi, crollando come un castello di carte, un gruppo di nove uomini di Manitoba, di età compresa tra i 19 e i 43 anni, ha confessato di trovarsi alla radice delle violenze dal 2005. Per rendere le vittime inermi e impossibilitate a ricordare e quindi testimoniare qualcosa, gli uomini usavano uno spray chimico, creato da un veterinario di una comunità mennonita vicina per anestetizzare le mucche. Durante le prime confessioni (poi ritrattate), gli stupratori hanno ammesso di agire di notte—da soli o in gruppo—appostandosi fuori dalle finestre delle camere da letto, per poi spruzzare la sostanza attraverso gli infissi, narcotizzare tutta la famiglia, e scivolare all’interno.
La verità completa, però, è emersa soltanto col processo, svoltosi quasi due anni dopo, nel 2011. Le deposizioni sembrano il copione di un film horror: le vittime avevano dai tre ai 65 anni (alla più piccola è stato rotto l’imene, presumibilmente con un dito). Ragazze e donne sposate, single, residenti, turiste, inferme mentali. Anche se non se n’è parlato e non è stato mai menzionato nel processo, alcuni abitanti mi hanno detto, in privato, che anche uomini e ragazzi sono stati violentati.
Nell’agosto del 2011 il veterinario che forniva lo spray anestetico è stato condannato a 12 anni di prigione e gli stupratori a 25 anni ciascuno (cinque anni meno della pena massima del sistema giudiziario boliviano). Ufficialmente sono state contate 130 vittime—almeno una per ognuna di più di metà delle case di Manitoba. Non tutte le vittime però sono state citate nella causa, e si stima che il loro numero sia di gran lunga più alto.
In seguito alla scoperta delle aggressioni non sono stati offerti né un aiuto psicologico né una consulenza alle donne stuprate. I tentativi di approfondire le dinamiche, dopo le confessioni, sono stati irrisori. Negli anni successivi all’arresto degli uomini non è mai stato proposto un tentativo comunitario di discutere i fatti. Al contrario, dopo il verdetto di colpevolezza, nella Colonia è sceso un velo di silenzio.
“Ci siamo lasciati tutto alle spalle,” mi ha detto Wall, l’allora leader civile della Colonia, durante una mia recente visita. “Preferiamo dimenticare, piuttosto che continuare ad averlo stampato in testa.” In effetti, a parte le occasionali visite dei giornalisti, nessuno ne parla più.
Ma nel corso di nove mesi di indagini e un soggiorno a Manitoba di 11 giorni, ho scoperto che questi crimini sono tutt’altro che un ricordo. Oltre alla sensazione tangibile che vi sia un trauma psicologico latente, è evidente come gli abusi sessuali—molestie e incesti dilaganti—siano ancora molto diffusi. È anche evidente che gli stupri commessi narcotizzando le vittime—nonostante i primi colpevoli siano in prigione—continuino ad avere luogo.
Otto uomini stanno scontando la sentenza in carcere per lo stupro di più di 130 donne nella Colonia di Manitoba. Uno dei presunti colpevoli è fuggito e ora vive in Paraguay.
A prima vista, la vita degli abitanti di Manitoba potrebbe sembrare idilliaca, e motivo di invidia per i fedeli new-age: le famiglie vivono in campagna, le case sono illuminate a energia solare e i mulini a vento forniscono l’energia ai pozzi di acqua potabile. Se una famiglia si trova ad affrontare un lutto, la comunità intera si adopera cucinando per la cerimonia. Le famiglie più ricche finanziano il mantenimento delle scuole e garantiscono un salario agli insegnanti. La giornata inizia con pane fresco fatto in casa, marmellata e latte appena munto ancora tiepido. Al tramonto i bambini giocano a rincorrersi in giardino, mentre i genitori si rilassano su sedie a dondolo contemplando il paesaggio.
Non tutti i mennoniti vivono in comunità chiuse. Ce ne sono 1,7 milioni in 83 paesi diversi. Il loro rapporto con il mondo moderno varia considerevolmente da comunità a comunità.
Alcuni lo evitano completamente; altri vivono in mondi isolati, ma ammettono automobili, televisioni, telefoni cellulari e un abbigliamento più vario. Molti vivono col resto della società e vi si confondono del tutto.
Questa religione è una deriva della riforma protestante del 1520, ed è nata in Europa da un prete cattolico di nome Menno Simons. I capi della Chiesa del tempo si scagliarono contro l’incoraggiamento di Simons al battesimo anche in età adulta e la sua idea che solo una vita semplice e pacifica potesse condurre al paradiso. Sentendosi minacciati dalla nuova dottrina, protestanti e cattolici iniziarono a perseguitare i suoi fedeli in Europa centroorientale.
Gran parte dei mennoniti—così furono chiamati i seguaci di Simons—rifiutavano di opporre ogni tipo di resistenza a causa del voto di non-violenza, ed emigrarono in Russia, dove gli furono assegnate terre in cui vivere indisturbati dal resto della società. Negli anni Settanta dell’Ottocento le persecuzioni arrivarono anche in Russia, e il gruppo cercò rifugio in Canada, accolto da un governo bisognoso di nuovi coloni. Al loro arrivo molti mennoniti iniziarono ad adottare un abbigliamento moderno, la lingua del posto e altri aspetti della vita contemporanea. Una piccola parte però, non riuscì a comprendere la decisione di questi confratelli, corrotti dal nuovo mondo, e continuò a credere nei principi dei padri come unica strada per accedere al paradiso. Questo gruppo, detto degli “Antichi coloni”, abbandonò il Canada negli anni Venti.
Questa decisione, in parte, fu presa perché il governo cominciò ad esigere che le lezioni a scuola fossero impartite in inglese, cercando di creare un curriculum scolastico standard per tutto il Paese (ancora oggi l’insegnamento degli antichi coloni è in bassotedesco, si basa rigorosamente sulla Bibbia e dura fino ai 12 anni per le femmine e ai 13 anni per i maschi). A quel punto gli antichi coloni emigrarono in Paraguay e in Messico, luoghi pieni di terre da coltivare, con un basso impatto tecnologico e, soprattutto, la promessa dei governi nazionali di lasciarli vivere secondo i loro desideri. Nel 1960, però, quando il Messico introdusse la propria riforma dell’educazione—che minacciava di limitare l’autonomia mennonita—ebbe inizio una nuova migrazione ed emersero colonie nelle zone più isolate, soprattutto in Bolivia e Belize.
Oggi ci sono 350.000 coloni in tutto il mondo, e la Bolivia ne ospita 60.000. La Colonia di Manitoba, formatasi nel 1991, sembra una goccia di mondo antico lasciata cadere nel mare del nuovo: un’isola di ordine nel caos sudamericano, di occhi azzurri e pelle bianco latte. La Colonia è economicamente fiorente grazie a una severa etica del lavoro, alle grandi terre fertili e alle latterie gestite collettivamente.
Manitoba è diventata così l’ultimo angolo di paradiso per i più convinti fedeli dell’Antica colonia. Altre colonie in Bolivia hanno gradualmente perso i loro rigidi dettami, ma gli abitanti di Manitoba continuano con fervore a rifiutare le automobili; i loro trattori hanno ruote di metallo, dato che possedere veicoli meccanici con ruote di gomma è considerato un facile contatto col mondo esterno e, quindi, peccato. Agli uomini è vietato farsi crescere la barba; il loro abbigliamento è composto, sempre, da salopette di jeans, tranne in chiesa, dove portano i calzoni. Le ragazze e le donne portano i capelli intrecciati in identiche trecce e vestiti la cui lunghezza della gonna o delle maniche non varia dal modello imposto più di qualche millimetro. Per gli abitanti di Manitoba non si tratta di regole arbitrarie: lastricano la strada per la salvezza, e loro vi obbediscono perché credono che il destino della loro anima dipenda da questo.
Come richiesto dagli antichi coloni, Manitoba è stata lasciata a se stessa e al proprio autogoverno. Tranne che in caso di omicidio, i leader della colonia non sono obbligati dal governo a denunciare i crimini. La polizia non ha giurisdizione all’interno della comunità, e così lo stato e le autorità municipali. La Colonia, per il mantenimento dell’ordine, ha un proprio governo de facto di nove ministri con a capo un vescovo, tutti eletti a vita. A parte l’obbligo imposto dal governo boliviano che gli abitanti possiedano una carta d’identità, Manitoba funziona come Stato sovrano.
Ho documentato il processo per gli stupri di Manitoba nel 2011 per Time. Turbata dalla mia prima visita alla Colonia, volevo sapere come stavano le vittime. Mi chiedevo anche se i crimini orribili perpetrati sugli abitanti fossero un’anomalia o rivelassero fratture più profonde all’interno della comunità. Possibile che il mondo isolato dei coloni, invece di promuovere una convivenza pacifica al sicuro dalle catene della società moderna, fosse esso stesso causa della sua rovina? Ero ansiosa di scoprirlo.
Sono arrivata tardi, un venerdì di gennaio, in una notte illuminata solo dalla luna. Ad accogliermi c’erano i sorrisi caldi di Abraham e Margarita Wall Enns, che mi aspettavano in piedi sulla veranda della loro piccola casa, collegata alla strada da un vialetto costeggiato da alberi. Nonostante vivano in un mondo chiuso, gli abitanti di Manitoba sono cordiali con gli stranieri che non minacciano il loro stile di vita, ed è così che sono arrivata qui: avevo incontrato Abraham, un metro e ottanta, il lentigginoso leader della comunità, nel 2011, e mi aveva detto che se mai fossi tornata, avrei dovuto stare con lui e la sua famiglia. E io sono tornata, sperando di osservare più da vicino la vita della colonia mentre intervistavo gli abitanti a proposito degli stupri e delle loro conseguenze.
Una volta entrata nella loro impeccabile casa, Margarita mi ha mostrato la mia stanza, accanto alle due in cui i suoi nove figli dormivano già. “Abbiamo montato questa, per sicurezza,” ha detto, mostrandomi una porta di acciaio spesso otto centimetri in fondo alle scale. Di recente ci sono state delle rapine (attribuite a boliviani). “Dormi bene”, mi ha detto, prima di chiudere il catenaccio della porta che separava me e la sua famiglia dal resto del mondo.
Il mattino dopo mi sono alzata prima dell’alba con il resto della casa. Ogni santo giorno le sue figlie più grandi—Liz, 22 anni, e Gertrude, 18—trascorrono gran parte del tempo a lavare piatti e vestiti, a preparare da mangiare, a mungere le mucche e a mantenere la casa lustra come uno specchio. Ho fatto del mio meglio per non combinare disastri, aiutando con le faccende di casa. All’ora di pranzo ero già esausta.
I lavori di casa non sono affare di Abraham, né dei sei giovani Wall; probabilmente passeranno tutta la vita senza mai lavare un piatto. Loro lavorano nei campi, ma dato che in questa stagione non ce n’è bisogno, i figli più grandi assemblano gli attrezzi agricoli che il padre importa dalla Cina, mentre i due più piccoli si arrampicano nel fienile per giocare con i pappagalli. Abraham permette ai suoi figli di giocherellare a calcio in giardino e di imparare un po’ di spagnolo leggendo il giornale che arriva ogni settimana da Santa Cruz; ogni altra attività organizzata, però, che sia uno sport di competizione, la danza o la musica, potrebbe compromettere per sempre la loro salvezza, ed è quindi assolutamente proibita.
I Wall mi hanno raccontato che per fortuna nessun membro della famiglia è stato vittima degli stupri, ma che, come chiunque altro nella comunità, sanno tutto a riguardo. Un giorno Liz mi ha accompagnata in una delle mie interviste; è una ragazza sveglia e curiosa che ha imparato lo spagnolo dal cuoco boliviano di famiglia, felice di avere una scusa per uscire di casa e socializzare.
Siamo partite in calesse lungo una strada sterrata. Durante il viaggio Liz mi ha parlato di ciò che ricorda del periodo dello scandalo. Per quanto ne sa, gli stupratori non sono mai entrati in casa sua. Quando le ho chiesto se fosse spaventata, mi ha risposto di no. “Non ci credevo,” mi ha detto. “Mi sono spaventata solo quando hanno confessato. A quel punto è diventata una cosa reale.”
Quando ho chiesto a Liz se credesse che si sarebbero potuti evitare altri stupri se le donne fossero state prese sul serio, ha aggrottato le sopracciglia. D’altra parte, la Colonia non aveva dato agli stupratori la possibilità di agire indisturbati per quattro anni, continuando a sostenere che il tutto fosse solo il frutto della “selvaggia immaginazione femminile”? Non mi ha risposto, ma mentre proseguivamo lungo la strada sterrata sembrava persa nei suoi pensieri.
Ci siamo fermate nel cortile di ciottoli di una grande casa, e sono entrata per un’intervista, mentre Liz mi avrebbe aspettato sul calesse. Nella penombra del salotto ho parlato con Helena Martens, una donna di mezza età madre di 11 figli, e con suo marito. Lei era seduta su un divano, gli scuri delle finestre chiusi, mentre discutevamo di ciò che era successo circa cinque anni prima.
A un certo punto, era il 2008, ha detto Helena, sentì un sibilo, subito dopo essere andata a letto. C’era un odore strano, anche, ma, dopo che suo marito ebbe controllato che la bombola del gas in cucina non stesse perdendo, si addormentarono entrambi.
Ha ancora il vivido ricordo di essersi svegliata nel cuore della notte con “uomo su di me e altri nella stanza, senza avere la forza nemmeno di alzare un braccio per proteggermi.” Era poi ripiombata in un sonno profondissimo e la mattina dopo si era svegliata con la testa dolorante e le lenzuola sporche. Gli stupratori l’hanno presa di mira altre volte, negli anni seguenti.
Helena ha dovuto affrontare alcune complicazioni mediche durante questo periodo, tra cui un’operazione all’utero. (Il sesso e la salute degli organi riproduttivi sono un tale tabù per i mennoniti che a gran parte delle donne non sono mai stati insegnati i nomi precisi delle parti intime, il che poi inibisce la descrizione dettagliata dell’accaduto e delle sue conseguenze.) Una mattina si è svegliata con un dolore tale che “credevo di morire,” ha detto. A Helena, come ad altre vittime di stupro a Manitoba, non è mai stata data la possibilità di parlare con un terapeuta, anche se mi ha detto che, se glielo avessero proposto, avrebbe accettato. “Che bisogno c’è di una consulenza psicologica, se erano incoscienti quand’è successo?” ha risposto il vescovo di Manitoba, Johan Neudorf, la più alta autorità della comunità, a chi glielo chiedeva dopo la cattura degli stupratori, nel 2009.
Altre vittime che ho intervistato—quelle che si sono svegliate durante l’aggressione così come quelle che non si sono accorte di nulla—mi hanno detto che avrebbero voluto parlare con un terapeuta, ma che ciò sarebbe comunque stato impossibile perché in Bolivia non esistono specialisti in abusi sessuali che parlino basso-tedesco.
Tutte le donne con cui ho parlato erano ignare del fatto che il resto del mondo mennonita—in particolare i gruppi progressisti di Canada e Stati Uniti—si era offerto di inviare consulenti a Manitoba. Ovviamente, questo significa anche che ignoravano che l’offerta era stata rifiutata dagli uomini della Colonia. Dopo secoli di tensioni con l’ala meno tradizionalista del gruppo, i capi dell’Antica colonia bloccano regolarmente ogni tentativo di contatto proposto da loro. Consideravano l’offerta di aiuto psicologico come un ennesimo velato tentativo di incoraggiare l’abbandono dei vecchi costumi.
Il rifiuto si basava molto probabilmente anche su altri motivi, come quello di voler evitare che il trauma di queste donne attirasse troppa attenzione sulla comunità. Mi era già stato detto che il ruolo di una donna nell’Antica colonia è quello di obbedire e sottomettersi agli ordini del marito. Un ministro mi ha spiegato che l’istruzione delle ragazze dura un anno in meno perché non hanno bisogno di imparare la matematica o a tenere i conti, così che questi insegnamenti vengono impartiti solo ai ragazzi, durante l’ultimo anno. Le donne non possono essere elette né votare.
Non possono nemmeno rappresentarsi legalmente, come il caso degli stupri ha clamorosamente dimostrato. Anche i querelanti al processo erano cinque uomini—un gruppo selezionato di mariti e padri delle vittime—invece che le donne stesse. Nonostante una divisione bianco-nero nei ruoli sembrasse evidente, la mia visita ha rivelato varie sfumature di grigio. Ho visto uomini e donne prendere decisioni insieme, nel focolare domestico. Durante le riunioni di famiglia, la domenica, le cucine, appannaggio di sole donne, si riempivano di chiacchiere e risate, mentre gli uomini sedevano seriosamente fuori, a discutere. Ho trascorso più di un pomeriggio con donne brillanti e intraprendenti come Liz e le sue amiche, che, come tutte le ragazze della loro età, si riuniscono quando possono per lamentarsi dei genitori e aggiornarsi su chi ha spezzato il cuore di chi questa settimana.
Nella fattispecie degli stupri, questi momenti di solidarietà femminile—uno spazio sicuro ritagliato nella rigida routine quotidiana—sono stati d’aiuto. Le vittime mi hanno detto di essersi sfogate con sorelle e cugine, cercando di tornare a una vita normale, soprattutto nel polverone del processo.
Le minorenni nominate nella causa sono state sottoposte a test psicologici, come imposto dalla legge boliviana, e la corte ha dichiarato che tutte queste giovani donne mostravano segni di disturbo post traumatico da stress, per cui si raccomandava una terapia a lungo termine—che però non è mai stata iniziata.
A differenza delle donne adulte, che hanno perlomeno trovato un po’ di conforto nel parlare con sorelle e cugine, molte giovanissime, dopo le valutazioni degli psicologi, non hanno avuto l’opportunità di discutere con nessuno della loro esperienza.
In salotto, Helena mi ha detto che anche sua figlia è stata stuprata, ma che non ne hanno mai parlato e che lei, ora diciottenne, non sa nemmeno che anche la madre è stata una vittima. Nelle Antiche colonie, gli stupri sono considerati una vergogna; le sopravvissute sono macchiate e, nella comunità, molti genitori delle vittime più giovani credono sia meglio non affrontare la questione.
“Era troppo giovane” perché se ne parlasse, mi ha detto il padre di una delle vittime, 11 anni al momento dell’abuso. Lui e la moglie non hanno mai spiegato alla piccola perché si fosse svegliata in preda al dolore, sanguinando tanto da dover essere portata in ospedale. Fu sballottata tra una serie di visite mediche con infermiere che non parlavano la sua lingua e nessuno, mai, le ha detto che era stata stuprata. “Era meglio che non lo sapesse,” ha concluso il padre.
Tutte le vittime che ho intervistato mi hanno detto che pensano allo stupro praticamente ogni giorno. Oltre a confidarsi con le amiche, sono ripiombate in una fede cieca. Helena, per esempio—nonostante le braccia incrociate e l’atteggiamento sofferente sembrassero smentirlo—mi ha raccontato di aver ritrovato la pace, e ha insistito, “Ho perdonato i miei aguzzini.”
E non è stata la sola. Ho sentito dire la stessa cosa da altre vittime e da genitori, sorelle, fratelli. Alcuni hanno persino detto che se i colpevoli avessero confessato i loro crimini—come hanno fatto all’inizio—e chiesto perdono a Dio, la Colonia avrebbe chiesto il loro rilascio.
Ero perplessa. Com’era possibile l’accettazione unanime di crimini tanto gravi e premeditati?
È stato solo quando ho parlato con il ministro Juan Fehr, vestito, come gli altri ministri, completamente di nero e con stivali alti, che ho capito. “Dio sceglie i Suoi con prove del fuoco,” mi ha detto. “Per andare in paradiso bisogna perdonare chi ci ha fatto un torto.” Il ministro ha detto di avere fiducia nel fatto che gran parte delle vittime siano arrivate autonomamente al perdono. Ma se una donna non avesse voluto perdonare, ha detto, allora avrebbe ricevuto la visita del vescovo Neudorf, la più alta carica di Manitoba, che le avrebbe semplicemente spiegato come “se non avesse perdonato, Dio non avrebbe perdonato lei.”
Una delle vittime più giovani a presentarsi alla sbarra è stata una ragazza che aveva 11 anni al momento delle violenze. Molte delle vittime non hanno avuto alcuna assistenza psicologica, e, secondo gli esperti, soffrono di disturbo post traumatico da stress.
I leader di Manitoba incoraggiano gli abitanti a perdonare anche l’incesto. È una lezione che Agnes Klassen ha dovuto imparare dolorosamente a proprie spese. Un afoso martedì l’ho incontrata fuori dalla sua piccola casa vicino all’autostrada, nella Bolivia dell’est, a circa 60 chilometri da dove abitava prima, nella Colonia di Manitoba, che ha lasciato nel 2009. Portava i capelli legati in una coda di cavallo, e sudava in jeans e maglietta.
Non ero lì per parlare degli stupri, ma una volta entrata l’argomento è inevitabilmente saltato fuori. “Una mattina mi sono svegliata con un gran mal di testa e il letto sporco,” ha detto, riferendosi a quando viveva a Manitoba, con lo stesso tono di una a cui viene in mente di aver scordato una cosa che era sulla lista della spesa. Non aveva più pensato a quella mattina, e non ha partecipato alla causa perché non capiva il motivo di farsi avanti quando i colpevoli erano già stati catturati. Ho quindi parlato con Agnes di altri momenti del suo passato doloroso— come l’incesto—le cui origini non sono chiare. “È tutto molto confuso”, mi ha detto a proposito dei suoi ricordi d’infanzia, tra cui le molestie subite da alcuni dei suoi otto fratelli maggiori. “Non so quand’è iniziato [l’incesto].”
In una famiglia con 15 figli, nella Antica colonia di Riva Palacios (la sua famiglia si è trasferita nella colonia adiacente a quella di Manitoba quando lei aveva otto anni), Agnes ha raccontato che gli abusi avvenivano nel fienile, nei campi o nella camera che divideva con i fratelli. Non si era resa conto che questo comportamento era inopportuno fino ai dieci anni, quando fu picchiata dal padre che aveva trovato il fratello che la toccava. “Mia madre non trovò mai le parole per dirmi che era a me che stavano facendo un torto, e che non era colpa mia,” ricorda.
Dopodiché, le molestie continuarono ma Agnes era troppo spaventata per chiedere aiuto. Quando, aveva 13 anni, uno dei suoi fratelli aveva cercato di violentarla, Agnes aveva timidamente avvertito sua madre. Non fu picchiata, quella volta, e, per un certo periodo, la madre fece del suo meglio per tenerli separati. Ma alla fine suo fratello la sorprese da sola e la violentò.
Le aggressioni da parte dei fratelli erano sempre più frequenti, ma Agnes non sapeva a chi rivolgersi. Le Antiche colonie non hanno polizia. I Ministri si occupano dei crimini direttamente ma, dato che i giovani non sono tecnicamente membri della chiesa fino al battesimo (che avviene quando hanno più di 20 anni), le loro malefatte vengono gestite tra le mura domestiche.
Agnes non avrebbe mai pensato di cercare aiuto fuori: dal primo giorno su questa Terra, come a tutti gli altri bambini della Colonia, le era stato insegnato che il mondo esterno è il male. E anche se alcuni sono riusciti a scappare, non c’è praticamente nessuna possibilità per un bambino di entrare in contatto con il mondo circostante, che tra l’altro non parla basso-tedesco. “Ho imparato a conviverci,” ha detto Agnes con voce tremante.
Si è scusata per le pause, e per le sue lacrime. Era la prima volta che raccontava la sua storia per intero. Mi ha detto che l’incesto ebbe fine quando iniziò a conoscere ragazzi che la corteggiavano, e lei da allora ha archiviato la cosa come passata. Però, dopo essersi sposata e trasferita nella casa di Manitoba, e aver dato alla luce due figlie, i suoi familiari hanno iniziato a molestare le bambine. “Stava cominciando a succedere anche a loro,” mi ha detto, con gli occhi che seguivano i movimenti delle due testoline biondo platino che giocavano fuori. Un giorno la più grande delle due, che all’epoca non aveva ancora quattro anni, aveva detto ad Agnes che suo nonno le aveva chiesto di mettergli le mani nelle mutande. Agnes mi ha detto che suo padre non aveva mai molestato né lei né le sue sorelle, ma che a quanto pare abusava continuamente dei suoi nipoti, finché lei e le sue figlie non sono fuggite da Manitoba (mentre lui, probabilmente, continua a farlo con le nipoti rimaste). Un’altra volta aveva scoperto uno dei nipoti mentre toccava la sua figlia più piccola. “Succede in continuazione,” ha detto. “E non solo nella mia famiglia.”
Certo, da tempo nella comunità mennonita internazionale è in corso una discussione, dai toni sommessi, ma molto accesa, sul problema crescente degli incesti nelle Antiche colonie. Alcuni difendono gli antichi coloni, convinti nel sostenere che gli abusi sessuali sono ovunque, e che il loro verificarsi a Manitoba conferma soltanto che in ogni società, per quanto giusta, esistono malattie sociali.
Altri, però, come Erna Friessen, la mennonita canadese che mi ha presentato Agnes, sostengono che “il problema delle violenze sessuali nelle colonie è enorme.” Erna e suo marito hanno contribuito alla fondazione di Casa Mariposa [Casa Farfalla], un rifugio per le ragazze e le donne delle colonie che hanno subito violenze. Situata vicino alla città di Pailon, nel cuore del territorio della Colonia boliviana, Casa Mariposa ospita un flusso continuo di missionari di lingua basso-tedesca pronti a dare una mano; le donne che vi si sono rivolte, però, sono poche. Oltre alla difficoltà di informare le donne dell’esistenza di questo posto e convincerle che cercare aiuto sia nel loro interesse, Erna mi ha detto che “venire a Casa Mariposa spesso significa lasciare la famiglia e il solo mondo di cui hanno conoscenza.”
Erna ammette che fare una stima precisa sia impossibile, data la natura isolata di queste comunità, ma è convinta che, per fare un esempio, il tasso di abusi sia più alto nelle colonie che negli Stati Uniti, dove una donna su quattro subisce abusi prima dei 18 anni. Per tutta la vita Erna ha fatto parte di questi gruppi—è nata in una Colonia mennonita in Paraguay, è cresciuta in Canada e ha trascorso gli ultimi otto anni in Bolivia. Di tutte le donne delle colonie che ha incontrato negli anni dice, “la maggior parte ha subito violenze.” Considera le colonie un “terreno fertile per gli abusi sessuali”, anche perché la maggior parte delle donne che ci vivono crescono con l’idea di doverli accettare. “Il primo passo è sempre cercare di far capire a queste donne che hanno subito un abuso. È successo a loro, alle loro madri e alle loro nonne, e così sono cresciute con l’idea di doverlo accettare.”
Altri che si occupano del problema degli abusi nelle Colonie ci vanno cauti con le cifre, ma sostengono che il modo in cui l’abuso è percepito nelle colonie rende la questione più difficile che altrove. “Queste ragazze non hanno via d’uscita”, ha detto Eve Isaak, psichiatra e consulente per le dipendenze e i lutti che lavora per le colonie mennonite in Canada, Stati Uniti, Bolivia e Messico. “In ogni società, a partire dalle scuole elementari, i bambini sanno che se subiscono un abuso possono, almeno in teoria, andare dalla polizia o da un insegnante, o da un’autorità. A chi possono rivolgersi queste ragazze?”
Anche se non ufficialmente, le chiese delle colonie sono diventate uno stato de facto. “Le migrazioni dei coloni possono essere interpretate non soltanto come una fuga dai problemi della società, ma anche come un avvicinamento a paesi che gli permettono di vivere secondo le loro scelte,” mi ha spiegato Helmut Isaak, marito di Eve, pastore e professore di storia anabattista e teologia al CEMTA, un seminario di Asuncion, in Paraguay. Ha detto che, prima di migrare in un nuovo paese, i coloni inviano una delegazione per negoziare le condizioni di autonomia che il governo lascerà loro, in particolare per quanto riguarda le leggi religiose.
In effetti, quello degli stupri seriali è stato il primo caso in cui una Colonia boliviana ha chiesto l’intervento esterno per gestire un problema interno. Gli abitanti di Manitoba mi hanno raccontato di aver chiamato la polizia nel 2009 perché i mariti e i padri delle vittime erano così arrabbiati che si rischiava il linciaggio degli accusati. (Uno dei sospettati, proveniente dalla Colonia vicina, è stato linciato ed è poi morto a causa delle ferite riportate.)
I leader della Colonia con cui ho parlato negano che le comunità abbiano un problema con gli abusi sessuali e continuano a sostenere che i reati vengono valutati internamente ogni volta che sono portati alla luce. “[L’incesto] non capita quasi mai, qui”, mi ha detto il ministro Jacob Fehr una sera mentre parlavamo sotto al suo portico, al tramonto. Ha aggiunto che in 19 anni di suo ministero, Manitoba ha visto un solo caso di violenza incestuosa (perpetrata dal padre sulla figlia). Un altro ministro ha negato persino quest’episodio isolato.
“In quelle famiglie vengono perdonate un sacco di cose orribili, di continuo,” mi ha detto Abraham Peters, padre dello stupratore più giovane, Abraham Peters Dyck, che ora si trova nel carcere di Palmasola, vicino a Santa Cruz. “Fratelli e sorelle, padri e figlie.”
Abraham pensa che suo figlio e la banda di stupratori siano stati una valvola di sfogo, una copertura del più ampio fenomeno di incesti della Colonia di Manitoba. Abraham senior vive ancora a Manitoba; dopo la condanna del figlio ha pensato di andarsene. I membri della comunità erano ostili, ma sradicare una famiglia di 12 persone si è rivelato un compito troppo arduo, quindi è rimasto e dice che negli anni è stato reintegrato nella vita della Colonia.
Agnes pensa che i due crimini siano facce della stessa medaglia. “Gli stupri, gli abusi, sono tutti interconnessi,” dice. “Ciò che ha fatto la differenza, con gli stupri, è che non si svolgono all’interno della famiglia. Ecco perché i ministri hanno agito così.” Ovviamente i leader cercano di correggere i comportamenti sbagliati. Prendete il caso del padre di Agnes: a un certo punto, le molestie alle nipoti sono state segnalate ai capi della chiesa.
Da procedura, egli si è dovuto presentare davanti ai ministri e al vescovo, che gli ha chiesto di confessare. Cosa che ha fatto, ed è stato “scomunicato”, cioè temporaneamente—per una settimana— espulso dalla chiesa. Dopodiché gli è stata offerta la possibilità di reintegrarsi, facendogli promettere di non rifarlo più.
“Ovviamente ha continuato,” ha detto Agnes. “Ha solo imparato a nasconderlo meglio.” Mi ha detto di non avere fiducia in “chi dice di essere cambiato nel giro di una settimana,” prima di aggiungere, “non ho fiducia in un sistema che lo permette.” Per i colpevoli più giovani è ancora più semplice; secondo Agnes, il fratello che l’ha stuprata ha confessato i suoi peccati al momento del battesimo, immediatamente lavandosene, quindi, agli occhi di Dio. Ora vive nella Colonia adiacente, Riva Palacios, e ha due figlie.
Una volta scomunicato e riammesso uno stupratore, i capi della chiesa considerano il problema risolto. Se quello continua imperterrito davanti agli occhi di tutti e rifiuta di pentirsi è scomunicato nuovamente ed espulso, questa volta definitivamente. I leader ordinano al resto della colonia di isolarne la famiglia; il negozio rifiuta di vendere prodotti a chiunque appartenga a quella casa, i bambini vengono banditi dalla scuola. Alla fine la famiglia non ha altra scelta che andarsene. Questo ovviamente significa che le vittime continueranno a vivere con i loro carnefici.
In realtà non sono stati gli abusi a far sì che Agnes e la sua famiglia dovessero lasciare Manitoba, nel 2009: è successo perché suo marito ha comprato una moto, ed è quindi stato scomunicato e allontanato insieme agli altri membri della famiglia. Quando il loro figlio più piccolo è morto annegato in un abbeveratoio per il bestiame, i capi della chiesa non hanno nemmeno lasciato che suo marito assistesse al funerale. È stato allora che se ne sono andati. A conti fatti, guidare una moto si è rivelato un affronto alla legge della Colonia più grave di tutti gli abusi che Agnes, le sue figlie e il resto delle donne della comunità hanno subito. Gestire una colonia come quella di Manitoba, al giorno d’oggi, è sempre più difficile. Agnes e la sua famiglia non sono i soli ad aver scelto la fuga. La città di Santa Cruz è piena di famiglie mennonite che ne avevano abbastanza dello stile di vita della Colonia—la situazione potrebbe arrivare presto a un punto critico.
“Non vogliamo più fare parte di tutto questo,” mi ha detto un giovane padre di nome Johan Weiber, quando sono andata a trovarlo a casa sua a Manitoba. La famiglia di Johan è una delle 13 che, pur vivendo ancora nella Colonia, hanno abbandonato la chiesa. Per mesi ha continuato a dire che voleva andarsene—hanno anche delle automobili—ma i capi della Colonia hanno rifiutato di ripagarli dei terreni che avrebbero lasciato. Così hanno deciso di fondare una chiesa dissidente all’interno di Manitoba.
“Abbiamo lasciato la chiesa della Colonia e ne stiamo fondando una nostra perché abbiamo trovato la verità,” ha continuato Johan. Per “verità” intende la Bibbia. “Ci dicevano di non leggere la Bibbia perché, se l’avessimo fatto, ci saremmo resi conto di varie cose, ad esempio del fatto che non è scritto da nessuna VICE 121 parte che le donne debbano portare i capelli intrecciati in quel modo,” mi ha detto appoggiato al suo pick-up bianco mentre la figlia, con una coda di cavallo, giocava in giardino.
Desiderosa di conoscere le imposizioni religiose specifiche di Manitoba, una domenica ho partecipato alla messa in una delle tre chiese prive di insegne della colonia. Ho capito subito che la solenne cerimonia di 90 minuti non è una priorità. I capifamiglia presenziano due o tre volte al mese, ma alcuni ci vanno anche meno spesso.
Per i bambini il cuore del curriculum scolastico è basato su passi scelti della Bibbia, ma, a parte 20 secondi di preghiera silenziosa prima e dopo i pasti, per gli adulti non esistono obblighi specifici alla preghiera o allo studio della Bibbia. “Molti hanno smarrito la cultura biblica,” mi ha detto Helmut Isaak, lo storico mennonita. Nel tempo, non avendo più bisogno di difendere costantemente la propria fede dai persecutori, i mennoniti hanno rivolto l’attenzione a problemi più pratici. “Per sopravvivere devono lavorare.”
È questo che ha causato una disparità di ruoli cruciale: la cerchia limitatissima dei capi della chiesa è l’unica interprete della Bibbia nelle Colonie e, poiché la Bibbia è legge, i capi la usano per imporre ordine e obbedienza.
I ministri negano le accuse: “Incoraggiamo tutti i membri a leggere i testi sacri,” mi ha spiegato il ministro Jacob Fehr una sera. Gli abitanti però ammettono in un sussurro che lo studio della Bibbia è scoraggiato, e che le Bibbie sono scritte in tedesco antico, una lingua che pochi ricordano a causa della scarsa educazione, mentre quelle in basso-tedesco spesso sono proibite. In alcune colonie, i membri che fanno ricerche troppo approfondite sulle Sacre Scritture vanno incontro alla scomunica.
Ecco perché Johan Weiber è una presenza sgradita—minaccia la leadership e la comunità. Inoltre ricorda loro il passato turbolento della Colonia. “È esattamente ciò che è successo in Messico prima che arrivassimo [in Bolivia],” ha detto Peter Knelsen, un abitante di Manitoba, sessantenne, che è arrivato dal Messico quand’era ancora adolescente. Non solo il governo messicano minacciava la Colonia con le sue riforme, ma c’era anche un movimento evangelico interno che parlava di “cambiare lo stile di vita,” ha detto Peter, che mi ha spiegato che anche nella sua Colonia, in Messico, i dissidenti avevano cercato di fondare la loro chiesa.
Per più di quarant’anni i coloni boliviani hanno evitato questo tipo di frattura interna. Ma con il tentativo di Johan Weiber di fondare la propria chiesa—con tanto di richiesta di terre dove coltivare e costruire una scuola indipendente—Peter e molti altri parlano di “apocalisse” incombente. La tensione è quasi esplosa a giugno, dopo la mia visita, quando il gruppo di Johan ha effettivamente dato inizio alla costruzione della nuova chiesa. Subito dopo l’inizio dei lavori, più di 100 uomini di Manitoba sono corsi sul posto e l’hanno distrutta, pezzo per pezzo. “Credo sarà molto difficile che la Colonia resti integra,” mi ha detto Peter.
Se la frattura continuasse ad allargarsi e la crisi arrivasse a un picco, gli abitanti di Manitoba saprebbero già cosa fare. Centinaia di anni fa, il primo gruppo di mennoniti in Europa, di fronte alla persecuzione, ha dovuto fare una scelta: combattere o andarsene. Dato il voto di pacifismo, sono fuggiti—e così hanno continuato a fare, ogni volta, da allora.
I leader di Manitoba sperano non si debba arrivare a tanto. In parte anche perché la Bolivia è uno degli ultimi paesi che li lascia vivere come vogliono, secondo le loro leggi. Per ora, quindi, il ministro Jacob Fehr dice che lui, da parte sua, non smetterà di pregare. “Vogliamo solo che [il gruppo di Weiber] lasci la Colonia,” ha detto. “Vogliamo essere lasciati in pace.”
Durante il mio ultimo giorno a Manitoba sono rimasta scioccata. “Sai bene che succede ancora, vero?” mi ha detto una donna, mentre bevevamo acqua ghiacciata accanto a casa sua. Non c’erano uomini nei paraggi. Speravo di aver capito male, ma la mia traduttrice dal basso-tedesco mi ha assicurato il contrario.
“Gli stupri con lo spray—succedono ancora,” mi ha detto. L’ho investita di domande: era successo a lei? Sapeva chi li commetteva? Qualcuno ne era al corrente? No, ha detto, non erano più passati da casa sua, ma da una sua cugina—di recente. Ha detto di sospettare fortemente di alcune persone, ma non mi ha voluto fare i nomi. E credeva che, sì, molta gente di Manitoba sa che l’incarcerazione dei primi stupratori non ha chiuso la serie criminale.
Come in uno strano vortice temporale, dopo dozzine di interviste in cui la gente mi ha raccontato che ora è tutto tornato alla normalità, non sapevo se considerarla una voce, una diceria, una menzogna o—peggio—la verità. Ho trascorso il resto della giornata a cercare freneticamente conferme. Sono tornata a trovare molte famiglie che avevo già intervistato e la maggioranza ha ammesso, con un po’ di impaccio che sì, ne avevano sentito parlare e che sì, credevano fosse vero.
“Non è più così frequente,” mi ha detto qualche ora dopo un giovane la cui moglie era stata stuprata durante la prima serie di violenze, prima del 2009. “[Gli stupratori] fanno molta più attenzione, ma continuano.” Mi ha detto di avere qualche sospetto sull’identità dei colpevoli, ma non ha fornito altri dettagli. In un’altra visita, Noah Friedman-Rudovsky, il fotografo di questo articolo, cinque persone hanno testimoniato—tre abitanti di Manitoba, un pubblico ministero e un giornalista—confermando di sapere che gli stupri continuano.
Le persone con cui ho parlato hanno detto di non avere idea di come fermare le supposte aggressioni. Non esiste ancora un corpo di polizia nell’area né una squadra di investigatori che possa approfondire le ricerche per costruire un’accusa. Ognuno è libero di denunciare qualcun altro ai ministri, ma se ne fa una questione d’onore: se il colpevole non confessa i propri peccati, rimane il dubbio su chi tra l’accusatore e l’accusato stia raccontando la verità… E le donne di Manitoba sanno già come andrà a finire.
L’unico modo per difendersi, mi hanno detto i residenti, è montare inferriate più resistenti alle finestre e porte blindate, come quella di acciaio dietro la quale ho dormito ogni notte durante la mia visita. “Non possiamo mettere lampioni per la strada o videocamere,” mi ha detto il marito di una delle vittime— sono tecnologie proibite. Per fermarli, è necessario cogliere qualcuno in flagrante. “Dobbiamo solo aspettare.”
Quell’ultimo giorno, prima di lasciare Manitoba, sono tornata da Sara, la donna che quasi cinque anni fa si è svegliata con delle corde attorno ai polsi. Mi ha detto che anche lei ha sentito degli stupri, e ha emesso un lungo sospiro. Lei e la sua famiglia si sono trasferiti in una casa nuova, dopo i nove arresti del 2009. La casa vecchia era piena di ricordi demoniaci. Mi ha detto di essere profondamente scossa dall’idea che qualcuno stia vivendo i suoi orrori passati, ma non sapeva cosa si potesse fare. Dopotutto, la sua vita terrena, come quella dei suoi fratelli mennoniti, è votata alla sofferenza. Prima di andarmene, mi ha offerto quelle che considerava parole di conforto: “Forse è la volontà di Dio.”
*****
Noah Freidman-Rudovsky ha contribuito alla stesura di questo articolo. I nomi delle vittime di stupri e abusi sono stati modificati dietro loro richiesta.