Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  settembre 18 Mercoledì calendario

GUARDAMI, MAMMA

Di Roberto Cavalli tutti sanno che è un big della moda italiana. Gli esperti ricordano che ha rivoluzionato il modo di stampare sulla maglia e sulla pelle. I gossippari conoscono le sue paparazzate, magari fotografato al fianco di donne bellissime a bordo di qualche yacht. Negli anni il mondo si è fatto un’idea abbastanza precisa di lui: caleidoscopico, esternatore, esibizionista, sempre e comunque sopra le righe.
OCCHIALI FUMÉ, CAMICIA BEN SBOTTONATA e catene al collo, è così che mi riceve nella sua villa alle porte di Firenze. È un po’ la divisa d’ordinanza, un look che a prima vista conferma l’immagine da party animal, nonostante i 72 anni. Solo che il supposto festaiolo, in realtà, la musica a palla, il casino e le albe in discoteca le odia.
Pirandello, a questo punto, si fregherebbe le mani. Il fatto è che Cavalli ha scritto un libro, Just me, che racconta un Roberto senza maschere. Quasi trecento pagine di autobiografia, edite da Mondadori, partono dalla storia di un bambino che, durante la seconda guerra mondiale, vede il padre trascinato in piazza e fucilato dai tedeschi. La balbuzie, i disastri scolastici e poi il riscatto sul lavoro, il primo amore, una Ferrari tutta bianca, i figli, le intuizioni geniali come imprenditore, i tradimenti, le avventure, un tentato suicidio, elicotteri e cavalli, il ritiro dalle scene, il secondo matrimonio e il ritorno alla moda.
Non ha voluto un ghost writer. Per tre anni ha torturato la tastiera dei suoi telefoni, digitando ricordi, emozioni e pensieri, poi affidati a qualcuno in ufficio, con il compito di assemblare tanti pezzetti di vita. Ha scritto con la paura di non avere parole abbastanza importanti, lui che aveva fatto il triennio delle medie in cinque anni («Alla fine mi graziarono, perché avrebbero dovuto bocciarmi ancora una volta»).
Si è raccontato nel bene e nel male, si è guardato negli occhi con una schiettezza naif. «Volevo dimostrare che anche uno come me, che da ragazzo non riusciva a leggere nemmeno un libro, poteva tirare fuori qualcosa di buono. E poi per via di Daniele».
Daniele è il secondo dei tre figli che il designer ha avuto da Eva Maria Duringer, la ex modella austriaca che ha sposato nel 1980. Ha 27 anni, lavora in azienda e la sua è una faccia garbata. «Gliel’ho chiesto non so quante volte di leggermi il libro, che poi ci saremmo messi lì io e lui da soli e mi avrebbe fatto delle domande, dicendomi i pregi e i difetti. Ma lui niente, non mi accontentava mai, così sono andato avanti. Per me il suo è l’unico giudizio che conta, non quello dei critici, e alla fine è stato lui a darmi l’idea su come concludere questo racconto».
Padre e figlio siedono accanto. Roberto straripa di aneddoti, Daniele si lascia interrompere, lo sa che il babbo è un continuo Sturm und Drang, la cosa lo diverte. E quando prende la parola sa anche di avere addosso lo sguardo più orgoglioso che un genitore possa mostrare.
Roberto, da queste pagine esce un ritratto di lei molto diverso da come siamo abituati a considerarla: appassionato, sensibile, pieno di dubbi e domande, legatissimo alla madre e alla famiglia, fragile eppure con una gran forza di volontà, eccessivo, sì, profondo pure. E questo il vero Cavalli?
Roberto: «Ho recitato molto nella mia vita, sono un grande, fantastico attore. La gente pensa che io beva champagne millesimato tutti i giorni, che passi le notti in discoteca e che mi faccia in continuazione, ma non è mica vero».
E allora perché mettere in piedi questa messinscena? Chi lo obbligava?
R.C.: «Ho creato io questo personaggio e non lo potevo dire. Nella moda ho finto tanto, del resto disegnavo dei vestiti per una clientela così pazzesca, come potevo dire che a una serata sfrenata preferisco una bella cena tra amici? Negli anni ’70 ero il numero uno, ma i designer allora non erano conosciuti, potevo vivere da zingaro e non importava a nessuno. Dopo gli stilisti sono diventati delle rockstar, c’è troppo business ora, così a me non piace».
Daniele, se è vero che suo padre mentiva al mondo, non dev’essere stato facile per voi figli distinguere tra inganno e realtà...
Daniele: «Io e i miei fratelli siamo cresciuti con un’educazione anticonformista, avevamo un papà pirata, un autentico spirito libero, amante delle cose semplici, uno che si impegnava a preparare i panini più sfiziosi per tutti noi. Quando è iniziata l’esposizione mediatica, con certi atteggiamenti futili e superficiali, mi sono scontrato con lui. Mi aveva trasmesso dei valori e poi si comportava al contrario: non gliene lasciavo passare liscia una. Col tempo ho capito la dinamica del personaggio e ho cominciato a riderci sopra».
Roberto, non si è mai vergognato di fronte alla sua famiglia per certe situazioni imbarazzanti apparse sulla stampa?
D. C. : «A questa domanda voglio rispondere io al posto di mio padre. Quello che si è cercato di insinuare, con certe immagini rubate, non ci ha mai turbati perché sapevamo come stavano realmente le cose. La volta che ha posato nudo su un trono per una rivista, quella sì che mi ha fatto incazzare».
R. C. : «Ah, ma lì sono stato veramente un cretino. Inutile girarci intorno, ho avuto un momento cretino, in cui mi sono lasciato convincere a fare cose senza senso». Beh, farsi fotografare senza veli, per uno che si descrive un insicuro cronico, forse era una forma di rivalsa?
R.C.: «Ho un carattere infantile, tutto quello che ho fatto nel tempo è stato per riscattarmi, innanzitutto, agli occhi di mia madre. Il trauma della morte di mio padre mi rese balbuziente. A scuola andavo malissimo e lei ne soffriva. Come piangeva il giorno in cui mi cacciarono dall’istituto alberghiero dove era convinta che me la cavassi bene. Provo ancora un enorme senso di colpa nei suoi confronti, anche se la odiavo quando mi mandava a fare la spesa».
E perché?
R. C. : «Mi diceva di andare a prendere tre etti di prosciutto e un chilo di pane, solo che i negozianti mi prendevano in giro per quanto tartagliavo. “Vediamo quanto ci mette oggi Robertino”, mi dicevano, e io andavo in panico. Il giornalaio era il peggiore di tutti. L’amore per Silvanella, la mia prima moglie, mi ha spinto a superare il problema. Recitavo Dante a voce alta davanti allo specchio, e alla fine ce l’ho fatta a venirne fuori».
D. C. : «Mio padre è la prova vivente che anche dalla peggiore delle situazioni si può uscire vincenti».
Roberto, ma oggi è sceso a patti con la figura materna?
R. C. : «Non mi perdono di essere stato tanto cattivo con lei. Ormai stava invecchiando e io non volevo rendermene conto. Magari diceva qualcosa di sbagliato e io le rispondevo in malo modo. Non potevo accettare la sua debolezza. Lei che ai dieci comandamenti di Dio me ne aveva aggiunti altri mille, come un giusto genitore deve fare, non poteva morire».
Parlando di un’altra donna fondamentale della sua vita, lei descrive sua moglie Eva come una storia d’amore fatta di tenerezza, passione, sesso e complicità. C’è qualcosa di cui si è pentito nel vostro rapporto?
D.C.: «A metà anni ’90 decisi di ripartire con la moda perché capivo che era una cosa che l’appassionava. Non avrei mai pensato che ci si sarebbe dedicata tanto, sennò forse non l’avrei fatto...».
Daniele, c’è qualcosa del libro che proprio non si aspettava di lui?
D. C.: «Mica me l’aveva mai detto che era andato al concerto dei Pink Floyd! Io credevo che nemmeno li conoscesse». Roberto, tutto questo guardarsi indietro non la rende nostalgico?
R.C.: «Per niente, il passato va lasciato dov’è. L’anno scorso ho rivisto Hava, una donna che ho amato molto. Era ancora bellissima, ma aveva una testa diversa, non la riconoscevo più mentre parlava. Le persone si incontrano, si vivono e poi escono dal tuo mondo, inutile cercarle ancora».
Ci pensa mai alla morte? Le fa paura?
R. C. : «Ho più paura di Barack Obama che parla di rifare una guerra. Il mondo dovrebbe ricordarsi di Gandhi, che diceva cose meravigliose senza mai alzare la voce. So di dover morire e non mi attacco alle cose perché voglio andarmene serenamente. Sono sicuro che quello che verrà dopo sarà molto meglio di adesso».