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 2013  settembre 18 Mercoledì calendario

COME DIANA MORÌ PER AMORE

A LONDRA, DENTRO HYDEPARK, C’È una fontana intitolata alla principessa Diana, come pure è intitolato a lei il parco giochi lì vicino. Ma il più famoso tra i monumenti in sua memoria è quello nei sotterranei di Harrods, il grande magazzino di cui fu proprietario, dal 1985 al 2010, Mohamed Al-Fayed, padre di quel Dodi Al-Fayed che fu l’ultima distrazione di Diana, prima dell’incidente d’auto che, la sera del 31 agosto 1997 a Parigi, li uccise entrambi.
«Di sotto, a destra, oltre il reparto scarpe», mi dice un commesso, e arrivo ai ritratti a colori di Dodi e Diana, incorniciati dal bronzo dorato di due «D» intrecciate e sormontate da un albatros. Davanti alla foto, chiusi in una piramide trasparente, il famigerato «anello di fidanzamento» che Dodi comprò per lei il giorno prima di morire, e un calice da vino macchiato di rossetto «da cui Diana bevve durante la loro ultima sera insieme, nella Imperial Suite dell’Hotel Ritz di Parigi».
Mohamed Al-Fayed ha cercato di mantenere altrettanto inalterata la sua verità sul loro rapporto. Da tempo sostiene che Dodi fu assassinato dai servizi segreti, in combutta con alcuni elementi della famiglia reale, perché era musulmano e stava per sposare la madre del futuro re. Di più: stava per avere da lei un figlio. Perché, secondo Al-Fayed, Diana era incinta.
Ma chi è stato davvero vicino a lei negli ultimi anni della sua vita non aveva bisogno di aspettare la fine dell’inchiesta giudiziaria – conclusa nel 2008 – per sapere che quelle di Al-Fayed sono farneticazioni assurde. Non solo Diana non aveva alcuna intenzione di sposare Dodi, non solo non aspettava un figlio da lui. Era, al contrario, «follemente innamorata» di un altro. Un cardiochirurgo dall’aspetto ordinario e dal nome pakistano: Hasnat Khan.

NESSUN MONUMENTO RICORDA IL LORO AMORE SEGRETO. Hasnat era tanto schivo quanto Dodi era esibizionista, tanto solitario quanto l’altro era socievole, tanto serio quanto l’altro spensierato. Benché lui e Diana abbiano passato due anni insieme, quasi nessuno li ha visti in coppia. Si rifugiavano a Kensington Palace, al riparo dai paparazzi. E se uscivano a Chelsea, il quartiere di Hasnat, lei si nascondeva sotto una parrucca scura e dietro grandi occhiali da sole. Hasnat Khan era una persona seria. Un chirurgo agli inizi della carriera nella sanità pubblica, che lavorava 90 ore a settimana in cambio di uno stipendio modesto, e quando rientrava a casa voleva solo dormire. Diana si tuffò nella normalità della sua esistenza, passò interi pomeriggi a rassettare il suo monolocale. E, poiché Hasnat invece di andare a caccia o a cavallo amava il jazz, imparò a mettersi in coda con lui all’entrata dei modesti locali di quartiere. Se litigavano, mandava il suo maggiordomo Paul Burrell a rabbonirlo, dietro una pinta di Guinness all’Anglesea Arms, un pub di Chelsea. Difficile immaginare Dodi che socializza con la servitù.
Ho incontrato le persone che hanno frequentato Diana e Hasnat, ho letto i verbali e le testimonianze. Ho parlato con persone a lui molto vicine, e da lui autorizzate a darmi la sua versione dei fatti. Ho avuto accesso alle dichiarazioni rese alla polizia dal medico, che vere interviste non ne ha mai fatte, e che non ama certo i giornalisti: ha fatte causa alla News Corporation – proprietaria del quotidiano popolare News of the World, costretto a chiudere nel 2011 dopo lo scandalo per le intercettazioni illegali di svariati personaggi, tra cui appunto lui – e devolverà il risarcimento all’unità di cardiologia che ha aperto in Pakistan per i bambini poveri.
Hasnat non solo si è rifiutato di collaborare alla realizzazione di Diana, il nuovo film che – interpretato da Naomi Watts – racconta proprio la loro storia: ha tenuto a sminuirlo in quanto «pieno di bugie». E forse è questa sua discrezione il regalo più bello che le ha fatto. «Tutti mi vendono» disse lei a un’amica, l’estate della sua morte. «Hasnat è l’unico che non mi venderà mai».

IL NOME SULLE SCARPE
Il loro primo incontro fu casuale, e molto più spiccio di quelli a cui lei era abituata. L’1 settembre 1995 Hasnat Khan irruppe nella sala d’aspetto del Royal Brompton Hospital per avvisare Oonagh Toffolo, agopunturista, che doveva riportare sotto i ferri suo marito Joseph – operato di bypass il giorno prima – per fermare un’emorragia. Oonagh gli presentò quella che non era certo una visitatrice «normale», ma il medico la salutò con un semplice cenno del capo e subito uscì. Lei probabilmente non aveva mai fatto meno colpo su una persona, in compenso lui aveva fatto colpo, eccome: «Oonagh, non è bellissimo?», disse la principessa. «E che bel nome, Hasnat Khan». Nessuno glielo aveva presentato. «L’ho letto sulle sue scarpe».
Oonagh era parte dello strano entourage di guaritrici, astrologhe, massaggiatrici e parrucchiere di cui Diana sempre più si circondava, man mano che si allontanava dalla famiglia reale. Già tre armi prima si era separata da Carlo, e viveva sola a Kensington Palace. Aveva più volte azzerato la cerchia dei suoi amici – per colpa di sgarri percepiti, o per pura noia – e ogni sei mesi cambiava il numero di cellulare, ossessionata dalla paura di essere spiata dai servizi segreti o dai giornalisti «nemici». «L’effetto collaterale di quella sua abitudine», mi dice Richard Kay, giornalista «alleato» del Daily Mail, «era che i suoi veri amici si contavano sulle dita di una mano».

A QUEL BIZZARRO INCONTRO seguirono i due anni di un’improbabile storia d’amore, una storia che, assicurano gli intimi di Diana, fu l’unica vera e importante dopo il matrimonio con Carlo. Per la trentacinquenne principessa, Hasnat non era solo un legame segreto. Era un’ultima possibilità di essere normale, di costruirsi una vita lontana da riflettori sempre meno benigni, accanto a un uomo con cui sognare la felicità privata che da tanto tempo le sfuggiva. «Dopo tutti gli uomini che aveva visto e frequentato», mi spiega una sua amica, «eccone uno totalmente privo di egoismo. Mi diceva di non aver mai incontrato nessuno come lui».
Nelle tre settimane di ricovero di Joseph Toffolo, Diana tornò quasi ogni giorno a trovarlo. Il divorzio si avvicinava. «Era un periodo delicato della sua vita», ricorda Patrick Jephson, suo segretario personale dell’epoca. «Da una parte c’era quel desiderio di normalità o perlomeno, la sua idea di normalità –, dall’altra il trauma del fallimento matrimoniale. Diana non era entrata nella famiglia reale per diventare principessa. Ci era entrata per diventare regina».
Il secondo incontro avvenne in un ascensore dell’ospedale, e questa volta gli sguardi si incrociarono. «Credo di aver trovato il mio Mister Wonderful», disse Diana a Simone Simmons, la sua guaritrice, e le descrisse quegli «occhi di velluto marrone scuro in cui ti puoi tuffare». Le sue visite – di solito la sera tardi, per non essere vista – si intensificarono. «La trovai molto alla mano, capace di far sentire chiunque a proprio agio», ha raccontato Hasnat nella sua deposizione alla polizia, nel 2004. «Sembrava che flirtasse con tutti».
Diana gli girò intorno finché, verso metà settembre, riuscì a strappargli la prima uscita insieme, una visita a Stratford-upon-Avon a casa degli zii di lui, Jane e Omar, dove doveva prendere qualche libro. Nelle parole di Hasnat: «Mai avrei pensato che mi dicesse di sì, quando le proposi di venire con me. Rimasi di stucco quando mi disse sì». Andarono in auto. Diana incontrò gli zii, dopo cena rientrarono a Londra. «E da quella sera la nostra amicizia diventò una relazione».

NEL NOVEMBRE DEL 1995 DIANA, PER FARGLI UNO SCHERZO, gli mandò in ospedale un enorme bouquet di fiori. Non c’era bigliettino, ma lui sapeva esattamente da chi veniva, e lo trasportò imbarazzato in corsia, sotto lo sguardo divertito dei colleghi, che avevano i loro sospetti sulla provenienza. Alla fine uno di loro chiamò il fiorista – fingendo di essere Hasnat, e dicendo che avrebbe restituito il bouquet se non gli avessero detto chi lo aveva mandato – e riuscì a strappare la risposta: Kensington Palace. «La stampa lo venne a sapere e si scatenò», ha raccontato il chirurgo alla polizia. «Sono andati a cercare le mie ex, i miei compagni di studi, i miei insegnanti in pensione». Nacque così, in lui, l’odio per i media.
Per Diana, invece, i media erano un’abitudine, e un fastidio, certo, ma un fastidio necessario. La sera del 30 novembre un fotografo del News of the World la beccò all’uscita dell’ospedale. Lei, che ormai conosceva benissimo certi meccanismi, gli chiese di farsi passare al telefono Clive Goodman, il cronista esperto di famiglia reale (che nel 2005 sarebbe finito in galera per avere intercettato le telefonate dei suoi figli William e Harry), e gli raccontò delle sue visite al Royal Brompton Hospital, dei suoi incontri con i pazienti terminali: «Finché sono qui sulla Terra, hanno anche loro bisogno di amore». La storia delle sue notturne «missioni segrete da angelo» uscì tre giorni dopo, non senza un maligno riferimento alle recenti rivelazioni su una vecchia presunta scappatella con la star del rugby Will Carling (il titolo era: «Almeno non sono qui con Mister Carling»).
Diana faceva ancora vendere i giornali, ma non era più la loro cocca. Finché era stata sposata, e finché la colpa del fallimento matrimoniale era stata completamente addossata a Carlo, tutti erano dalla sua parte. Ma poi erano emerse le sue bugie, le sue manipolazioni, le sue chiacchierate amicizie – anche con uomini sposati come, appunto, Carling – ed era ormai difficile per lei passare per la vittima. «Il suo rapporto con la stampa era in una fase delicata», mi dice Jane Atkinson, che curava proprio le sue pubbliche relazioni: «i cronisti non si fidavano più tanto di lei». O se ne facevano beffe: dopo l’uscita dell’articolo sulle sue visite segrete in ospedale, la rivista satirica Private Eye regalò ai lettori una tessera – la «Di-No Card» – che un paziente poteva esibire per tenere alla larga la principessa, accompagnata dallo slogan «protezione garantita dalla donna che ti vuole amare».

POSACENERE E FAST FOOD
Ma lo scherno era un prezzo modesto da pagare in cambio del silenzio sulla storia con il medico. Per tutto il 1996, Diana riuscì a farlo entrare indisturbata a Kensington Palace, dove lei, che non fumava e aveva il pallino del mangiare sano, tirò fuori i posacenere per le sigarette di Hasnat, e ordinava il fast food che piaceva a lui. «Nella spazzatura trovavo montagne di cicche», ha scritto in un libro Paul Burrell, il suo maggiordomo, «e scatole di Kentucky Fried Chicken».
Le camicie button-down non riuscivano a nascondere la pancia incipiente di Hasnat. Che, per di più, aveva ritmi bestiali e poco tempo per lei. «Che cosa ci trovi in lui?», le chiese un amica. E Diana: «Lo amo, mette così tanta passione nel suo lavoro». Questo, in realtà, era anche un problema. Nelle parole di un amico del chirurgo: «Quando non lavorava, voleva dormire». Un ménage frustrante per Diana, che spesso lo chiamava anche mentre era in sala operatoria, e gli lasciava messaggi con il nome falso di «Doctor Armani». Intanto, le sue visite notturne allarmavano la direzione, che temeva uno scandalo sulla stampa. C’era anche un problema di sicurezza. Ma lei se ne infischiava.
Ben presto Hasnat capì che Diana non vedeva la vita come le persone «comuni». Anche prima di diventare moglie di Carlo, era cresciuta in una delle famiglie più blasonate dell’aristocrazia britannica. Con lui scopriva per la prima volta la normalità quotidiana. «Una volta andammo al pub», ha raccontato Khan, «e mi chiese di andare al bancone a ordinare, perché non l’aveva mai fatto prima. Stare lì a chiacchierare con il barman era un’esperienza che le piaceva moltissimo». Un’altra volta, mentre aspettava fuori da Ronnie Scott’s, un locale di musica jazz, telefonò a Simone Simmons per dirle «quante persone interessanti si incontrano facendo la fila».
Durante un viaggio di lavoro di Hasnat in Spagna, Diana disse di volerlo raggiungere. «Le risposi che non poteva andare in aeroporto, sarebbe stata assediata». Lei disse che avrebbe indossato una parrucca per non farsi riconoscere, e lui le fece notare che a un volo di linea non ci si può presentare al check-in con un aspetto irriconoscibile rispetto alla foto del passaporto.
Proprio l’anormalità della sua vita di principessa creò i primi attriti nella relazione. «Se andava in vacanza», racconta ancora Patrick Jephson, «dopo due o tre giorni le saliva la frenesia, perché aveva bisogno di essere intrattenuta e di alimentare la sua persona pubblica. Diceva: voglio essere normale. Ma la normalità è una cosa scomoda, quando devi trovare un parcheggio».

DIANA E HASNAT DISCUTEVANO DI MATRIMONIO, e due delle amiche con cui ho parlato mi hanno detto che lei voleva dargli una figlia. Lo presentò a William e Harry. A Paul Burrell chiese persino di trovare qualcuno che potesse celebrare il matrimonio in modo discreto. Quando Hasnat lo venne a sapere, si arrabbiò: «Credi davvero di poter trascinare qui un prete e sposarti così?». Erano mentalmente alla ricerca di un riparo dalla curiosità dei media. «Le dissi che vedevo una sola possibilità di una vita vagamente normale insieme, e quella possibilità era il Pakistan, perché laggiù la stampa non ti perseguita». Diana prese seriamente in considerazione l’idea. E questo atteggiamento, per la madre di due figli piccoli che andavano a scuola in Inghilterra, mostra la sua mancanza di realismo. Avrebbe fatto di tutto pur di accontentare Hasnat, che era sempre più Impaurito dalle attenzioni della stampa: «Non volevo andare in giro guardandomi costantemente alle spalle».
Il 20 febbraio 1996 Diana volò in Pakistan con Lady Annabel Goldsmith. Motivazione ufficiale: una visita al centro di oncologia aperto dal campione di cricket, ed eroe nazionale pakistano, Imran Khan. Marito di Jemima, figlia di Annabel e amica di Diana. E, soprattutto, lontano cugino di Hasnat, membro dello stesso clan tradizionalista di etnia Pashtun. Da Jemima, la principessa voleva sapere che cosa significava essere sposata a un pakistano. «Era follemente innamorata di lui, sopra ogni cosa voleva sposarlo», mi dice Jemima, «anche se per riuscirci doveva andare a vivere in Pakistan. Ma mandare il figlio a studiare in Inghilterra e vederlo tornare con una moglie inglese è il peggior incubo di una madre Pashtun». Diana, però, era convinta che la famiglia di Hasnat non potesse resistere al suo fascino. Per questo frequentava la casa degli zii Ornar e Jane. Per questo mandava a Nanny Appa, la nonna preferita di Hasnat, lettere che lei si faceva tradurre dall’inglese.
SANDWICH PROIBITI
Di ritorno a Londra, decise di mostrarsi sinceramente interessata alla carriera di lui. Chiese a Magdi Yacoub, cardiologo e mentore di Hasnat, di poter assistere a un’operazione. L’occasione arrivò nell’aprile del 1996, quando la charity fondata da Yacoub decise di farsi pubblicità trasmettendo in Tv l’intervento che avrebbe salvato la vita a un ragazzo arrivato dal Camerun, dove quel tipo di operazione non era disponibile. Diana si presentò all’intervento in camice, mascherina e, come la stampa acidamente sottolineò, occhi pesantemente truccati. La storia con Hasnat era ormai il segreto di Pulcinella, ma nessuno ne aveva le prove certe, e così si giocava a nascondino. «Il Dottor Khan ha il fascino esotico di un Ornar Sharif», scrisse il Daily Mail, «e Diana è affascinata dalla sua sicurezza in sala operatoria».
Il 4 luglio 1996, gli avvocati di Carlo presentarono la loro offerta per la definizione del divorzio. La sera stessa, fasciata dalla seta avorio tempestata di perle di uno shalwar kameez – il costume tradizionale pakistano – ricevuto in dono da Jemima, Diana partecipò al Dorchester Hotel a un gala di beneficenza per l’ospedale di Imran Khan. Agli amici aveva detto di volersi risposare appena il divorzio fosse stato definitivo, e per questo voleva ingraziarsi la famiglia Khan.
In Diana L’ultimo amore segreto della principessa triste, il libro da cui è stato tratto il film con Naomi Watts, Kate Snell racconta di quando Diana invitò a Kensington Palace la famosa nonna, Nanny Appa, in visita agli zii in Inghilterra, e del pomeriggio surreale che ne seguì, con la principessa che le presentò la sua cuoca bengalese – convinta che parlassero la stessa lingua, e invece no – e poi Nanny che sollevò i bordi dei sandwich per accertarsi che la farcitura rosa non contenesse prosciutto cibo proibito per un musulmano osservante. Era, fortunatamente, salmone affumicato, ma forse la nonna aveva ragione a preoccuparsi perché, come mi ha detto Simone Simmons, «Diana non rifletteva mai sull’appartenenza religiosa di Hasnat. E quando lui invitava i suoi amici, era capacissima di servire sandwich al bacon».
IN OTTOBRE, A RIMIMI, Diana ricevette un premio umanitario, e tra i premiati c’era anche Christiaan Barnard, il sudafricano pioniere del trapianto di cuore. Ne approfittò per parlargli di Hasnat e cercargli un lavoro migliore (quando lui lo seppe, prevedibilmente, si infuriò). Da lì volò a Sydney per presenziare all’apertura del Victor Chang Cardiac Research Institute, un centro intitolato a un altro dei maestri di Hasnat. Due giorni più tardi il Sunday Mirror sparò il titolo che entrambi – e lui, soprattutto – temevano da mesi: «II nuovo amore di Diana. Come un mago del cuore ha riparato il cuore spezzato della principessa triste». Richard Kay del Daily Mail, uno dei pochi cronisti a cui Diana aveva permesso di accompagnarla in Australia, subito le chiese un commento. Lei gli assicurò che erano tutte «stronzate», che la storia del Mirror l’aveva infastidita perché «potrebbe ferire William e Harry», ma che a parte questo «con le amiche ci siamo fatte una bella risata». «Presi per buone quelle parole», dice Kay, e il Mail le pubblicò il giorno dopo. Per quanto desiderasse tenere segreta la storia con Diana, leggere che lei la smentiva spudoratamente ferì Hasnat, e rafforzò in lui la convinzione dell’impossibilità di costruire insieme una vita normale. Tanto più che aveva iniziato a ricevere minacce per posta, lettere con la sua foto e un cappio disegnato attorno al collo.
DIANA NON SI DIEDE PER VINTA. Nel maggio del 1997 partì con Jemima, direzione Labore. «Veniva di nuovo ad aiutare nella raccolta fondi per l’ospedale di Imran, ma era anche decisa a incontrare la famiglia sua e di Hasnat per parlare di nozze. Voleva sapere della mia vita in Pakistan, mi chiedeva consigli su come affrontare gli uomini pakistani e il loro retaggio culturale».
Sapeva che Hasnat aveva deciso, in cuor suo, che il matrimonio era impossibile: «A lui faceva orrore il piano segreto che lei stava mettendo insieme», ricorda Richard Kay, che ormai sapeva tutta la verità sulla loro storia. Eppure era decisa a conquistare Naheed, la madre dell’uomo che amava e che voleva sposare.
Per consentire l’incontro in modo discreto, senza attirare attenzione, le sorelle di Imran Khan, Aleema e Rhanee, la caricarono sulla loro auto e partirono alla volta della casa dei genitori di Hasnat, dall’altra parte della città. Ma dopo dieci minuti restarono bloccate in un ingorgo stradale, e Aleema si rese improvvisamente conto del pasticcio in cui si erano cacciate: in mezzo al traffico di Labore, senza guardie del corpo, con la madre del futuro re d’Inghilterra. «Pensavo: ma siamo matte? Se succede qualcosa, scoppia un caso internazionale». Ben presto i passanti iniziarono a riconoscerla, a indicarla, a salutare. «E lei, impassibile, I tirò giù il finestrino e ricambiò i saluti e i sorrisi». Quando finalmente arrivarono, trovarono gli zii e le zie di Hasnat ad attenderli nella casa della famiglia Khan. Si misero a chiacchierare ] nell’afa asfissiante del giardino, perché c’era stato un blackout e l’aria condizionata era fuori uso, e Diana parlò e parlò, e non se ne voleva mai andare. Quella sera chiese aiuto a Imran Khan, e lui promise che, una volta tornato a Londra, avrebbe parlato con Hasnat. Non ne ebbe mai il tempo, perché Diana morì prima.
L’ULTIMA TELEFONATA
Ormai divorziata. Diana cercava il modo di organizzare, per i figli, vacanze capaci di replicare il lusso e la privacy del castello scozzese di Balmoral. Così, quando nel giugno 1997 Mohamed Al-Fayed la invitò nella sua villa di St. Tropez, lei accettò. Non per questo rinunciava al suo sogno. Il 21 giugno lo passò a Stratford-upon-Avon con la famiglia di Hasnat, compresa la nonna Appa, tornata dal Pakistan. Accompagnò i suoi cuginetti al supermercato. Quattro giorni più tardi, 79 dei suoi abiti andarono all’asta da Christie’s, a New York, regalando 3 e rotti milioni di dollari alle sue cause benefiche, e allontanandola sempre di più dalla famiglia reale. Il 10 luglio, la sera prima della sua partenza per St. Tropez, Hasnat la passò con lei a Kensington Palace. «Tutto filava ancora liscio tra noi», ha poi detto. «Ma pochi giorni dopo ho capito che qualcosa non andava. Il suo cellulare squillava a vuoto». Diana era assediata dai paparazzi. «Vi sorprenderò», disse loro. Intanto Mohamed Al-Fayed aveva chiamato suo figlio Dodi, a Parigi con la fidanzata modella Kelly Fisher, e gli aveva chiesto di aiutarlo a intrattenere Diana. Per fare colpo su di lei aveva da poco comprato, per 30 milioni di dollari, uno yacht, 10 Jonikal.
Il 22 luglio Diana partecipò a Milano al funerale di Gianni Versace. A fine mese, incontrò Hasnat. «Se conosci qualcuno molto bene, li accorgi quando c’è qualcosa che non va», ricorda lui. «Non era la Diana di sempre. Non faceva che controllare il cellulare». Le disse che ci doveva essere qualcun altro, qualcuno che era legato agli Al-Fayed. Lei negò. «Però il giorno dopo, quando ci vedemmo di nuovo, ammise che tra di noi era tutto finito. “Sei morta”, fu la mia reazione. Perché di mezzo doveva esserci qualcuno del clan di Al-Fayed, e come si fa a legarsi a persone così?».
Era agosto. William e Harry si trasferirono a Balmoral, Diana volò in Sardegna e partì per una crociera di una settimana a bordo dello Jonikal, assieme a Dodi. Al suo fianco fu fotografata dal re dei paparazzi, Mario Brenna, che a quanto pare era stato da lei «convocato». Il 6 agosto tornò a Londra e da lì si trasferì in Bosnia per la sua campagna contro le mine ammonio. Ma avrebbe potuto starsene in vacanza: tanto tutti non facevano che parlare delle foto con Dodi, che avevano spinto Kelly Fisher a fargli causa. «Diana vuole una vita vera, Diana è stufa di vivere nascosta», scrisse Richard Kay sul Dolly Mail. «Perché mai dovrebbe rinunciare ad avere un uomo al suo fianco?». Ma secondo le amiche della principessa, quello era un messaggio che aveva un solo destinatario: Hasnat Khan.
DT RITORNO DALLA BOSNIA, partì per un’altra breve crociera con l’amica Rosa Monckton, ex manager di Tiffany, estremamente critica della sua vicinanza con il clan Al-Fayed. Diana le disse che si aspettava un anello di fidanzamento da Dodi. Ma non faceva che parlare di Hasnat. La sensazione di Rosa, come di molte delle sue amiche, era che Diana fosse più innamorata che mai del medico pakistano, e che tutta quella messinscena servisse solo a ingelosirlo, a punirlo per la sua riluttanza non solo a sposarsi, ma anche a uscire allo scoperto.
«Il problema», dice Jemima Khan, «è che Hasnat era un brav’uomo, estremamente riservato, uscito da una famiglia conservatrice. Aveva paura. Di quello che sarebbe potuto succedere, della stampa che avrebbe per sempre tormentato la sua vita». Lo ha spiegato benissimo lui stesso alla polizia: «Sapevo che la nostra vita sarebbe stata un inferno. Che non avremmo mai avuto un’esistenza normale. Che, se avessimo avuto figli, non avrei potuto portarli al parco, a fare quello che fanno tutti gli altri bambini». Insomma, Hasnat non faceva che sottolineare problemi. Dodi, invece, le dedicava tutto il tempo che aveva. Ed era perfetto, forse, per far ingelosire l’altro. Una cosa è certa: con la famiglia Khan, Diana si comportò fino all’ultimo come se la loro storia non fosse mai finita. Idem con le sue amiche. Ecco perché Rosa Monckton e Annabel Goldsmith hanno sempre escluso, nelle loro testimonianze, la possibilità di una seria relazione tra Diana e Dodi. Rosa si trovò anche costretta a smentire le affermazioni di Mohamed Al-Fayed sulla presunta gravidanza: solo una settimana prima di morire, in barca con lei, Diana aveva avuto il ciclo mestruale.
L’epilogo – il viaggio a Parigi con Dodi, la folle e fatale fuga nel tunnel dell’Alma – tutti lo conoscono. Quasi nessuno sa, però, che l’ultimo giorno della vita di Diana, Hasnat Khan cercò di chiamarla. Ma lei aveva di nuovo cambiato il numero di cellulare.
ANDÒ AL FUNERALE, PROTETTO DA SPESSI OCCHIALI DA SOLE e da un ancora più spesso silenzio.
Da allora, ha avuto due fidanzamenti, e un matrimonio rapidamente
finito.
«Se lei fosse ancora viva», ha detto nella sua deposizione alla polizia, «saremmo, credo, ancora amici, anche se lei avesse trovato la felicità con un altro. È una triste perdita, quando muore qualcuno che ti è vicino. Non so come si sia comportata Diana nelle sue altre relazioni, ma con me fu sempre protettiva. Nei confronti della stampa, e non solo. Forse mi proteggeva perché pensava davvero che avessimo un
futuro insieme».
E a sua volta, Hasnat non ha mai smesso di proteggerla.