Vittorio Zucconi, la Repubblica 19/9/2013, 19 settembre 2013
DAL PING PONG A CAMP DAVID
Guardata alternativamente come un poker di bugiardi o come l’ultima dea della pace, la diplomazia contiene e rappresenta tutte le contraddizioni dei rapporti fra gli esseri umani. Sta alle relazioni internazionali come gli ammortizzatori stanno alle automobili. Dopo il sensazionale e sanguinoso fallimento del primo vertice fra i due fratelli Caino e Abele, l’umanità ha scoperto che a volte scambiarsi elaborate bugie scritte in “diplomi”, può servire a limitare, ma non impedire, la ripetizione del fratricidio.
Senza neppure risalire agli immancabili cinesi, probabili inventori di quella che oggi chiamiamo appunto diplomazia, o al signore di Milano Francesco Sforza che fu il primo a costruire una rete permanente di legazioni nell’Italia del ’400, la storia di questa strana arte ha segnato successi ammirevoli e reali. Gli accordi di Camp David, la pace fra Egitto e Israele, la distensione fra Usa e Urss, la rivoluzione nei rapporti fra Cina e Stati Uniti, leggendariamente nata attorno a un tavolo da ping-pong, poichè la diplomazia non disdegna alcun mezzo per portare gli avversari, appunto, attorno a un tavolo o, senza ammetterlo, in un letto.
Un po’ come la medicina, che sa di non poter mai vincere la battaglia finale, ma nondimeno la deve combattere paziente per paziente, la diplomazia è soltanto un palliativo, un analgesico che cura i sintomi senza guarire il male di vivere. L’estenuante negoziato fra Washingtone e Hanoi per mettere fine alla guerra nel Vietnam e alla reciproca strage servì soltanto a coprire la sconfitta e la resa degli Stati Uniti, così come i solenni trattati di non aggressione fra nazisti e sovietici, fra Ribbentrop e Molotov furono il paravento dietro il quale Hitler prese tempo per preparare l’attacco all’Urss.
Oggi ci si domanda a che serva l’apparato della diplomazia professionale, il costo di quei signori «pagati per mentire per conto dei loro governi» come scrisse Henry Kissinger, formidabile bugiardo, nel tempo della comunicazione istantanea. Il mito dell’ambasciatore “plenipotenziario” dunque con pieni poteri di rappresentanza diventa la realtà di un lavoro burocratico senza vera autonomia, oltre a quella di creare buoni rapporti con il governo ospitante, utili soprattutto a far contenti i dignitari in visita dai quali dipende la carriera. Non è proprio quella funzione da “albergatore di lusso”, come si definì esasperato un ambasciatore americano dopo avere ospitato e intrattenuto visitatori ufficiali con rispettivi coniugi. Ma è pur sempre meglio del trattamento che Olga, la crudele granduchessa di Kiev, riservava mille anni or sono agli ambasciatori che lei, se non apprezzava il “diploma” e le credenziali, rinchiudeva in baracche di legno e faceva bruciare vivi. Prima di convertirsi al cristianesimo ed essere fatta prontamente santa.
Ora è a questa dea dell’undicesima ora che si affida la speranza di evitare la guerra in Siria, chiedendo a russi, americani, siriani di cucinare una menzogna accettabile che salvi la faccia – supremo ideale di ogni buon diplomatico – dei rispettivi “boss”. Si tenterà di ricorrere al massimo tempio mai costruito per il culto della diplomazia, il Palazzo di Vetro a New York, perfetta rappresentazione di quella diplomazia che Will Rogers, voce dell’America negli anni 30, riassumeva con cinismo popolare: «Diplomazia consiste nel ripetere al cane che ti ringhia contro, buono, stai buono, bel cagnetto, fino a quando si trova un bastone abbastanza grosso».