Lucio Caracciolo, la Repubblica 19/9/2013, 19 settembre 2013
DIPLOMAZIA
La diplomazia è la continuazione della guerra con altri mezzi. Definizione poco diplomatica, ma che rende il senso di questa nobile arte. Il confine che divide il negoziato internazionale dal rombo del cannone è infatti molto labile. Quando la diplomazia fallisce si slitta facilmente verso la guerra. Molto più arduo è riportare un conflitto armato a disputa diplomatica. Ce lo conferma la cronaca: le principali potenze sono impegnate in un aspro negoziato in sede Onu sulla risoluzione che dovrebbe sancire la rinuncia della Siria alle sue armi chimiche. Consapevoli che se l’opzione diplomatica fallirà l’attacco punitivo contro il regime di Bashar al Assad da parte di Stati Uniti, Francia e altri attori tornerà a farsi probabile.
Il caso siriano rivela il precario stato attuale della diplomazia, specie di quella alta, che coinvolge gli Stati più influenti e ne ricalibra in corso d’opera il peso specifico sulla scena internazionale. Per ben funzionare, il negoziato necessita di due precondizioni: la legittimazione reciproca e la coerenza fra diplomazia e strategia. Quando gli attori non si riconoscono abilitati al dialogo, accordarsi è impossibile, se non imponendo la volontà del forte al debole: un dettato. Se i negoziatori non trattano in base a obiettivi strategici, definiti dai responsabili politici, la loro tessitura resta fine a se stessa: pura estetica. Ebbene, legittimazione reciproca e coerenza strategica sono merce sempre più rara nella politica internazionale.
Cominciamo dalla prima. Non siamo ai tempi del Congresso di Vienna (1814-15) o anche della Conferenza di Versailles (1919), quando i sovrani – non importa se tali per grazia divina o suffragio popolare – si riunivano in clausura con i rispettivi ministri e plenipotenziari, riconoscendosi reciprocamente legittimi e usando dei medesimi codici negoziali. Con l’avvento delle ideologie rivoluzionarie e delle dittature di massa, il contesto diplomatico si complica alquanto. Visioni del mondo troppo assolute producono gerghi e schemi negoziali difficilmente conciliabili. Una cosa è difendere i propri interessi nazionali, altra promuovere una causa. Non importa quale: comunismo, fascismo, califfato islamico, universalismo liberale, perfino la pace in terra. Dogmatismi e fanatismi prendono il sopravvento sul calcolo costi/benifici.
Legittimarsi non significa dirsi la verità. Ogni negoziatore sa, come Talleyrand, che il linguaggio è un mezzo per celare i nostri pensieri. La diplomazia funziona non quando è sincera, ma se è capace di interpretare gli obiettivi altrui. Operazione improbabile qualora si tratti di penetrare menti agitate dal fuoco di una causa che si concepisce levatrice della storia. A Jalta (1945) Roosevelt e Stalin, araldi di due cause insieme illimitate e incompatibili – la libertà universale, missione dell’America, e l’umanità comunista di cui la Russia si offriva matrice – non avevano agio d’intendersi, anche se immaginavano di riuscirci. Sicché la Dichiarazione sull’Europa liberata da loro firmata insieme a Churchill, concepita dal presidente americano come la “Magna Charta” della democrazia nell’Europa riunita, verrà poi stigmatizzata quale machiavellismo staliniano per imporre all’Occidente la cortina di ferro. Perché la stessa parola – “democrazia” – aveva significati opposti a seconda di chi la pronunciasse.
Eppure per Roosevelt Stalin era “zio Beppe”. Il quale intanto istruiva così i suoi negoziatori: «La parola di un ambasciatore non deve avere alcuna relazione con l’azione – altrimenti che razza di diplomazia sarebbe? Le parole sono una cosa, le azioni un’altra. La diplomazia sincera non è più reale dell’acqua secca o del legno ferroso».
Ma il danno più serio è stato inflitto alla diplomazia dalla carenza di pianificazione strategica imposta ai decisori politici per effetto della pressione dei media, quando non troppo (auto)censurati, e degli elettori, se votano davvero. Dalla geometria della guerra fredda, con le sue regole binarie, siamo bruscamente precipitati nell’imprevedibile universo di una competizione internazionale senza paradigmi né egemonie. Altro che multipolarismo: qui di poli non v’è l’ombra.
Il caso delle “primavere arabe” è illustrativo della crescente anarchia internazionale e della tenue presa degli Stati Uniti su un mondo che tendeva a rispettarli, magari odiandoli. Soprattutto, i principali attori sembrano o privi di progetti di medio periodo (gli americani e altri occidentali) o se ne hanno, come gli scacchisti russi e i cinesi che praticano il weiqi, gioco strategico per eccellenza, non dispongono dei mezzi per sostenerla. Nessuno potrà però battere noi europei, capaci di produrre una corposa burocrazia autoreferenziale, nominarla servizio diplomatico in assenza di un sovrano politico (ovvero in presenza di ventotto aspiranti tali) e intestarla alla responsabilità di un para-ministro degli Esteri, la baronessa Ashton, che è quello che sembra.
La concezione classica della diplomazia appare in questione. Ormai gli ambasciatori devono improvvisare, a surrogare la vaghezza delle determinazioni del potere politico, o contentarsi di amministrare un mestiere che induce a eseguire, non a concepire. Nel recente passato, alcuni grandi diplomatici, anche italiani, preferivano improvvisarsi politici, non fosse che per vellicare il proprio ego. Talvolta con esiti brillanti. Oggi che le pratiche rilevanti sono spicciate dai leader faccia a faccia, in frenetiche occasioni conviviali di cui non resta traccia scritta, ai diplomatici è tolta anche questa soddisfazione. Per compensare, professionisti, appassionati o laici cultori della materia possiamo tutti dedicarci a Diplomacy, il gioco da tavolo che piace a Kissinger perché lo riporta all’Europa dei doppi cognomi e dei tripli predicati, quando quattro teste coronate e un manipolo di aristocratici ridisegnavano il planisfero geopolitico fra gli stucchi di un palazzo refrattario ai clamori del mondo.