Alberto Mingardi, Il Sole 24 Ore 18/9/2013, 18 settembre 2013
EQUO SALARIO, ANTICO ENIGMA
Quando un salario è equo? Il dibattito sulla "giusta mercede" si trascina nei secoli. Ma la nostra è una generazione davvero fortunata: la Gioventù Socialista svizzera pare avere scoperto dove tracciare la riga. I cittadini elvetici, il prossimo 24 novembre, saranno chiamati a pronunciarsi sulla "iniziativa 1:12", che così propone di emendare la Costituzione: «Il salario massimo versato da un’impresa non può superare di oltre dodici volte il salario minimo versato dalla stessa impresa».
Che la supertassa del 75% sulla parte di stipendio eccedente il milione di euro raccolga consenso in Francia, non stupisce. Ma la Svizzera non ha avuto Babeuf, non porta sulle spalle il medesimo fardello ideologico, è un Paese piccolo e ricco, che nella competizione globale attrae non solo capitali ma anche gli headquarter di grandi multinazionali. Un’eventuale loro fuga metterebbe a rischio quella prosperità diffusa che, dentro e fuori i suoi confini, tutti riconoscono alla Confederazione come un dato acquisito.
Proprio questo dà la misura di quanto vasta e diffusa sia l’insofferenza verso i super-salari. L’indignazione è montata per la buonuscita di 60 milioni di euro, proposta per l’ex ceo di Novartis, Daniel Vasella (che l’ha poi rifiutata, ma la frittata, con le uova della sua reputazione, era bell’e fatta). Si stima che Vasella guadagnasse, in precedenza, 700 volte l’ultimo dei suoi collaboratori.
È difficile non avere l’impressione che si sia perso il buon senso. Ma, perso il buon senso, la legge può farne le veci?
C’è senz’altro un problema di agenzia, nelle grandi corporation: a una pluralità di mandatari corrisponde un management molto più informato di loro sulle condizioni dell’azienda. Tanto più sono "piccoli", e tanto meno gli azionisti hanno l’incentivo a essere informati sin nei dettagli di quanto accade nell’impresa di cui sono comproprietari. Il loro pacchetto d’azioni ha un peso molto ridotto, che non giustificherebbe i costi d’apprendimento.
Non sempre abbiamo a che fare con "cospirazioni", o con consiglieri d’amministrazione conniventi che si divertono a strapagare un vecchio compagno di scuola. Pensare che le cose vadano sempre così equivale a considerare tutti i manager dei poco di buono, e tutti gli azionisti degli sprovveduti.
In realtà, nessuno di noi è pienamente responsabile del proprio salario. Talora nemmeno chi un salario lo paga è pienamente responsabile della cifra alla quale ferma l’asticella. Il fatto che due persone, una che offre lavoro l’altra che lo compra, a un certo punto si siano stretti la mano, non significa che la decisione su quanto pagare e quanto farsi pagare sia stata veramente e fino in fondo soltanto loro. Nel nostro stipendio ci sono i nostri meriti, c’è la scarsità relativa delle nostre competenze, c’è la nostra attitudine al lavoro con gli altri, c’è la nostra grinta, c’è il contagiri delle nostre ambizioni e delle nostre scelte di vita. E c’è la concorrenza: la competizione per certi talenti, il loro apprezzamento sociale (non necessariamente il medesimo, in diversi momenti nel tempo), contribuisce a farne il prezzo.
Tutto questo vale anche per chi guadagna moltissimo: soprattutto per chi guadagna moltissimo, se il suo reddito testimonia la scarsità delle capacità che ha avuto in sorte.
Uno stipendio dodici volte quello della segretaria, si direbbe, è già non poco. Ma perché non undici, o quindici? Dodici sono i mesi dell’anno, i segni dello zodiaco, gli apostoli: i giovani socialisti ci avranno ben riflettuto.
Ciò che essi propongono altro non è che impedire a un prezzo (il prezzo di determinate competenze) di fluttuare. Come i milanesi ai tempi di Antonio Ferrer, credono che il calmiere sia una misura giusta per «i tiranni, che nuotano nell’abbondanza, e voglion far morir noi di fame». Si attendono che s’inneschi una potente «redistribuzione di risorse». Assumere inoltre che la performance di un’azienda, e quindi anche l’occupazione, non sia minimamente correlata alla qualità di chi la dirige, o che quest’ultima non sia punto riflessa nel suo stipendio, è un azzardo.
Impedire alle imprese di determinare liberamente i salari significa limitarne grandemente la capacità di immaginare e pianificare il proprio sviluppo. La Svizzera può perdere alcuni grandi manager, o alcune grandi imprese - gli uni attratti da salari liberi, le altre dal poter esercitare la propria libertà economica. Hanno ragione i socialisti: avverrebbe una grande redistribuzione. Con tutta probabilità, a spese degli elvetici e a vantaggio di altri Paesi.
@amingardi