Gianfranco Morra, ItaliaOggi 19/9/2013, 19 settembre 2013
PERSINO IL FASCISMO MANTENNE IL DIRITTO AL VOTO SEGRETO
Detto e fatto. I grillini non vogliono il voto segreto e hanno presentato una proposta per eliminarlo dallo Statuto del Senato. In previsione della votazione definitiva sulla decadenza di Berlusconi, che avverrà nell’aula di Palazzo Madama. E per la quale non solo loro rifiutano il voto segreto. ne chiedono la cancellazione anche Pd, Sel, Lega e Udc. Una richiesta che appare coerente con la linea politica del MoVimento, in quale da sempre rifiuta quell’art. 67 della Costituzione, che dichiara, in nome della libertà di coscienza, il parlamentare libero da ogni mandato. Grillo lo vuole tutto dipendente dal partito in cui ha voluto candidarsi, in ogni momento controllabile e sostituibile. E’ vero che la richiesta dei grillini (e non solo) nasce da un caso singolo, ma corrisponde pienamente al loro modo di fare politica.
I difensori del voto segreto affermano invece che può essere garanzia di libertà. Vi sono dei casi in cui la mancata segretezza espone al condizionamento e produce dipendenza dal partito. Da noi era contemplato dallo Statuto Albertino, art. 63, e lo stesso fascismo lo mantenne sino al 1939, quando legiferò: «le votazioni hanno luogo sempre in modo palese». Non ne parlano le costituzioni dei principali paesi democratici.
La nostra afferma la segretezza del voto dei cittadini (art. 48) e impone il voto segreto per l’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83). Ma non prescrive nulla di più. Nonostante la disinvolta affermazione del sen. Lucio Malan: «i costituenti hanno introdotto il voto segreto a salvaguardia della democrazia». Al contrario, fu Aldo Moro alla Costituente che chiese e ottenne di non farne cenno nella «Carta»: «Il voto segreto tende a sottrarre i deputati alla necessaria assunzione di responsabilità di fronte al corpo elettorale» (14 ottobre 1947).Saranno già nel 1948 i regolamenti delle due Assemblee a renderlo possibile.
L’elenco delle possibilità è lungo e ha finito per giustificare una serie di abusi, di cui è tappezzata tutta la storia della Repubblica. In pratica il voto segreto ha sollecitato forme squallide e anche criminose di prassi parlamentare. Tutte riassumibili nella definizione «franchi tiratori», ossia voti dati in contrasto con la linea del partito di appartenenza non per libertà di coscienza, ma per calcoli di interesse personale, qualche volta anche di «franchi».
Fu sùbito così, tanto che nel 1958 Luigi Sturzo presentò in Senato un disegno di legge sulla eliminazione del voto segreto dal regolamento: «serve alle intese e agli intrallazzi tra i partiti». Dopo una vita dedicata alla politica Sturzo sapeva bene come andavano le cose: «il voto segreto ha la gradita funzione di difendere gli iscritti ad un partito, in modo da non incorrere nella vendetta del proprio apparato, che potrebbe espellerli subito o ad ora fissa, ovvero attenderli al varco delle elezioni». Non serve alla coscienza, ma alla poltrona.
Appare ovvio che il voto segreto sulla decadenza di Berlusconi non potrà non esserci. Il presidente Grasso ha ragione, quando sottolinea che il regolamento del Senato è del tutto chiaro in tal senso: «I voti in Assemblea sono espressi per alzata di mano, per votazione manuale o a scrutinio segreto, su richiesta di venti senatori. Sono effettuate a scrutinio segreto le votazioni comunque riguardanti persone» (art. 113; per la Camera analogo l’art. 49). Per ora c’è e va rispettato.
Occorrerebbe, dunque, modificare quel regolamento del Senato, cioè spostare non poco in avanti il voto sulla decadenza. Col pericolo che una decisione generale possa apparire fatta «contra personam». Inoltre il clima surriscaldato del momento sconsiglia di tentare una modifica, che dovrebbe cercare di raggiungere il massimo possibile di unanimità. Il PdL ha tutto l’interesse a chiedere la segretezza del voto e allo stato attuale della normativa ne ha ogni diritto. Come gli altri, per evitare imprevisti, di rifiutarla.
In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, ogni giorno i mass-media informano gli elettori su come gli eletti hanno votato. La segretezza non può esserci, dicono, altrimenti non sarebbe democrazia, che vuol dire in primo luogo trasparenza. Ciò non significa che negli Usa un eletto non voti in difformità col partito, anzi accade non di rado. Significa che deve farlo apertamente e l’elettorato deve saperlo. Il problema, dunque, è ancora una volta di morale politica. Ma quanta ce n’è rimasta nelle sedi dei partiti e nella aule del parlamento? That is the question.