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 2013  settembre 18 Mercoledì calendario

LA CORRUZIONE COME METODO

I BARDI della corte di Arcore, ancora una volta, la sparano grossa. Gridano al «golpe rosso », all’«attacco concentrico», all’«esproprio proletario». Molto più banalmente, depurate dal falso ideologico e politico al quale ci ha abituato la propaganda populista e vittimista del quasi Ventennio berlusconiano, le motivazioni della Cassazione sul Lodo Mondadori sono solo l’ovvia conseguenza civilistica di una verità giudiziale ormai acquisita. Una verità definitiva, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a questo punto diventa anche storica. Una verità che sveste il Sovrano di tutti i suoi finti orpelli e i suoi falsi scudi. E lo espone, nudo, di fronte alla legge e al Paese.
Cos’altro deve accadere, perché si debbano considerare vere e non più contestabili le accuse provate in ben sei gradi di giudizio, e infine sanzionate con una condanna dalla Corte d’appello di Milano il 9 luglio 2011? A cos’altro ci si può appigliare, per contestare quella sentenza esemplare in cui ora la Cassazione, trova come unico e paradossale «difetto» quello di essere «fin troppo analiticamente argomentata »? Eppure non basta, ai falchi e alle colombe del Pdl che insieme ai familiari difendono il Capo, in una rituale confusione di ruoli in cui come sempre il partito si fa azienda e l’azienda si fa partito.
I GIUDICI di allora, come quelli di oggi, hanno scritto e ampiamente dimostrato due dati di fatto oggettivi, e non più controvertibili. Il primo: nella contesa che nel 1991 portò il gruppo Mondadori nelle mani del Cavaliere si produsse un episodio gravissimo di corruzione di magistrati, di cui Berlusconi fu l’ideatore iniziale e Previti l’esecutore materiale. Il secondo: se quel reato corruttivo non si fosse verificato, la casa editrice di Segrate sarebbe rimasta a pieno diritto nella proprietà del gruppo De Benedetti (editore di questo giornale).
Basterebbe questo a dare la misura dell’enorme responsabilità penale che, nella vicenda specifica, grava sulle spalle della sedicente «vittima» del «complotto» e giustifica il risarcimento danni cui è adesso costretto. Ma qui c’è molto di più. Nelle carte del Lodo Mondadori come in quelle delle altre sentenze passate in giudicato (da All Iberian ai diritti tv Mediaset) c’è riassunto lo stigma dell’intera parabola berlusconiana, e insieme il paradigma della sua avventura imprenditoriale e politica. Un vero e proprio «metodo di governance » (e poi anche di governo), che risale a molti anni prima dell’epica «discesa in campo» del ’94 ed è in buona parte alla base delle fortune iniziali del tycoon della televisione commerciale, fin dai tempi dei primi decreti «ad aziendam » varati dall’amico Craxi negli anni ’80. Un «sistema di potere» collaudato, in cui gli affari privati si mescolano agli interessi pubblici. Gli strumenti della mala-finanza sono usati per assicurarsi i buoni uffici della mala-giustizia. Il Cavaliere evade il fisco, crea fondi neri, realizza falsi in bilancio. Tutto serve per alimentare una «provvista» segreta, con la quale si comprano magistrati compiacenti e finanzieri renitenti, e poi anche faccendieri senza scrupoli e parlamentari senza vergogna.
LA GUERRA DI SEGRATE E IL “DOMINUS” DELLA CORRUZIONE
Nella guerra di Segrate «l’apparato corruttivo » berlusconiano dispiega tutta la sua geometrica potenza. All’inizio degli anni ’90 la contesa tra due industriali per il possesso della Mondadori volge a favore di De Benedetti, dopo che un collegio di arbitri gli assegna la titolarità della maggioranza delle azioni della casa editrice. Berlusconi impugna il Lodo davanti alla Corte d’Appello di Roma. E qui, nel «porto delle nebbie» della Capitale, accade il misfatto. Il giudice relatore Vittorio Metta deposita una sentenza di 167 pagine (scritta non da lui ma da «ignoti», pare nello studio Previti) che sovverte il Lodo e riassegna la Mondadori al Cavaliere. Si scoprirà poi, più di dieci anni dopo, che quella sentenza Berlusconi l’ha comprata, facendo depositare 400 milioni di lire sul conto di Metta, attraverso i buoni uffici di Previti. Anche questa è una verità giudiziale, scritta in una sentenza passata in giudicato, dopo le pronunce della Corte d’Appello di Milano del 23 febbraio 2007 e della Cassazione il 13 luglio dello stesso anno.
Quella condanna penale costa la galera a Previti e agli avvocati Acampora e Pacifico. Berlusconi si salva solo perché, nel frattempo, è già diventato presidente del Consiglio nel 2001, e ha fatto approvare dal Parlamento un paio di leggi che gli servono a salvare la faccia e la poltrona. A lui, premier, i magistrati di secondo grado applicano la pena della «corruzione semplice » (non quella «aggravata» che invece inchioda Previti) e gli riconoscono le «attenuanti generiche». Grazie a queste, e alla nuove norme che nel frattempo hanno accorciato i tempi della prescrizione, il Cavaliere è riconosciuto a tutti gli effetti colpevole, ma non viene condannato perché il reato è ormai prescritto. Lo schema è sempre il solito. Ed è lo stesso che, attraverso l’abuso autoritario del potere esecutivo e l’uso gregario del potere legislativo, lo salva dalle sanzioni del potere giudiziario. È andata quasi sempre così: dal processo Sme-Ariosto a Mills, dal processo Mediatrade a All Iberian 1.
Di fronte a tutto questo, solo i teoreti bugiardi della Grande Menzogna possono gridare al «tentativo di annientamento totale» del Cavaliere ad opera delle toghe politicizzate. Sulla base di quelle sentenze penali, la giustizia civile non fa altro che il suo corso. I giudici della Cassazione non possono che ribadire solennemente le due evidenze che già decretarono quelli della Corte d’Appello due anni fa. Prima evidenza: Berlusconi è «il corruttore », perché è stato «indiscusso beneficiario delle trame illecite materialmente attuate da altri sodali», e Previti è l’ufficiale pagatore, perché «doveva ritenersi organicamente inserito nella struttura aziendale», al punto che tra le sue varie incombenze «rientravano anche l’attività di corruzione di alcuni magistrati». Seconda evidenza: la corruzione del giudice Metta ha privato De Benedetti non solo e «non tanto della chance di una sentenza favorevole, ma senz’altro della sentenza favorevole». La posta perduta dalla Cir, in altri termini. È stata molto più grande della «chance »: è stata la Mondadori stessa, perché secondo la Corte «con Metta non corrotto l’impugnazione del lodo sarebbe stata respinta».
Questo passaggio, ormai «res iudicata », rende risibile l’ira di Marina Berlusconi, che tuona contro l’«autentico esproprio politico» e l’accanimento di «una certa magistratura» che «assieme al gruppo editoriale di Carlo De Benedetti, tentano di eliminare dalla scena politica» suo padre. La politica, in questa vicenda processuale come nelle tante altre che lo riguardano, non c’entra nulla. Il Cavaliere paga in denaro per i reati comuni che ha commesso quando era solo un imprenditore e l’epifania di Forza Italia era ancora di là da venire. Paradossalmente, Marina avrebbe quasi ragione quando sostiene che Fininvest non «deve un euro» alla Cir. Perché gli dovrebbe molto di più: cioè la Mondadori stessa, quella di allora, con tutto il potenziale economico e finanziario che rappresentava e avrebbe potuto rappresentare nell’arco di questi vent’anni. Un’occasione persa per sempre. Per questo, riafferma la Cassazione, il danno subito dalla Cir è «ingiusto».
IL SISTEMA DI POTERE E L’ESSENZA DEL BERLUSCONISMO
Ma il Lodo Mondadori è solo un capitolo di una «narrazione» molto più vasta, e molto più inquietante. Come ha scritto Giuseppe D’Avanzo su “Repubblica” il 10 luglio 2011, questa vicenda giudiziaria, insieme a tutte le altre che lo hanno visto e lo vedono ancora coinvolto, riflette il rifiuto delle regole e il disprezzo della legge che il Cavaliere ha sempre dimostrato, da imprenditore illiberale e poi anche da leader di una destra anti-costituzionale. È lui il simbolo dell’Italia tangentara degli anni ’80 e ’90, e poi dell’Italia corrotta del nuovo millennio. Il meccanismo corruttivo è intrinseco alla gestione aziendale, ed è quasi consustanziale al raggiungimento dei risultati. Va al di là del solito principio secondo il quale il Cavaliere «non poteva non sapere». Scrive la Cassazione: «Un’analisi ricomposta dell’intera vicenda (costituzione della provvista all’estero ed utilizzo della stessa a fini corruttivi) consentiva di concludere in termini di consapevolezza necessaria di quanto andava accadendo in capo al dominus societario».
Qui, come sui diritti tv Mediaset, è sempre lui il «dominus», che architetta e sovrintende al sistema. E lo fa con una logica ferrea, che D’Avanzo ricostruiva ricordando la sentenza Mills, l’avvocato inglese che per conto e nell’interesse di Berlusconi e con il suo coinvolgimento diretto e personale crea e gestisce «64 società estere offshore del “group B very discret” della Fininvest», dove transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri. I 21 miliardi che hanno ricompensato Craxi per l’approvazione della legge Mammì. I 91 miliardi destinati a politici «ignoti» (che «costano molto perché è in discussione la legge Mammì»). E ancora il controllo illegale dell’86% di Telecinco. L’acquisto fittizio di azioni per conto di Leo Kirch. Le risorse destinate appunto da Previti per la corruzione di Metta nel Lodo Mondadori. Gli acquisti di azioni che in violazione delle regole favorirono le scalate a Standa e Rinascente. All’elenco di allora si potrebbero aggiungere ora i miliardi spesi nel frattempo per comprare i silenzi dei Tarantini e i Lavitola, spacciatori di olgettine nelle «cene eleganti» di Palazzo Grazioli e Villa Certosa, o per comprare i voti dei De Gregorio e altri «responsabili», congiurati necessari per far cadere il governo Prodi nel 2008.
Eccola, al fondo, la vera essenza del berlusconismo. Un potere che sfrutta senza scrupoli la sua funzione pubblica, con l’unico scopo di proteggere i suoi affari privati. Aspettiamo l’alba di un nuovo video-messaggio, per capire se lo Statista di Arcore farà saltare il tavolo. Ma intanto assistiamo basiti al suo ultimo, disperato travestimento: il ladro che si urla perché l’hanno «rapinato».