Anna Zafesova, La Stampa 18/9/2013, 18 settembre 2013
KALASHNIKOV IL MITRA È UGUALE PER TUTTI
È un vecchietto piccolino, con gli zigomi marcati e gli occhi piccoli di quei russi che portano nei geni il ricordo dei tartari, un po’ sordo ma con portamento marziale, e forse anche un po’ svanito. Sembra uno di quei pochi veterani rimasti, tanto onorati dalla propaganda quanto dimenticati da autorità e parenti, che passano la giornata sulle panchine a giocare a scacchi. È difficile riconoscerlo, anche perché il suo volto è diventato pubblico solo quando era ormai anziano, nonostante con il suo ingegno avesse cambiato il mondo più di Steve Jobs, anche se non altrettanto in meglio. Se fosse nato dall’altra parte della Cortina di ferro sarebbe diventato miliardario, ma lui risponderebbe che solo grazie al socialismo un autodidatta come lui, che aveva appena fatto le medie, è potuto diventare un uomo importante, con il petto che non riesce a contenere tutte le medaglie sulla sua uniforme di generale. Molti non sanno nemmeno che esiste, pochi sanno che è ancora vivo, ma in tutte le lingue del mondo si conosce il suo nome, scritto con la minuscola, perché ormai non è una persona, è un oggetto: il kalashnikov.
I numeri sono da far invidia a qualunque multinazionale: sulla Terra ci sono in circolazione circa 75 milioni di suoi mitra, oltre ad almeno 100 milioni di versioni più o meno contraffatte dello storico AK-47, in pratica un fucile su 5, prodotti in almeno 30 Paesi e in dotazione a una cinquantina di eserciti. È stato il giocattolo preferito di soldati, mafiosi, ribelli, terroristi, comunisti e islamisti, narcobaroni e guerriglieri, un’arma talmente simbolica da finire sulle bandiere e sugli stemmi nazionali, dal Mozambico a Timor Est ai vessilli gialli di Hezbollah, creata da un signore che adora «la pesca, la caccia e le donne» (in questo ordine) e passava il tempo libero a casa, a riparare tubature e combattere i roditori, come racconta il giornalista francese Oliver Rohe nel suo La mia ultima invenzione è una trappola per talpe , in uscita da Add editore.
Un’invenzione e un inventore che hanno due storie parallele: di fama planetaria la prima, quasi sconosciuto, anzi, per anni un segreto di Stato ambulante, il secondo. Mikhail Timofeevich Kalashnikov, classe 1919, 17° di 19 figli di contadini deportati in Siberia perché per quanto poveri avevano terra di proprietà e quindi erano «kulaki», i nemici di classe. Un segreto che l’uomo-simbolo della supremazia sovietica ha tenuto nascosto per decenni, come il fatto di essere scappato dal confino falsificando i timbri per i documenti, il suo primo successo in tecnologia. Portandosi dietro la paura di venire smascherato, senza però mai mettere in dubbio il sistema che aveva devastato la sua famiglia: alla morte di Stalin ha pianto in pubblico, e resta un fedele tesserato del Pc.
Una biografia romanzata, che racconta la storia di Kalashnikov e del kalashnikov, un esempio di come un uomo può cambiare la storia quasi per caso. Un contadino con il pallino della tecnologia, poi un soldato dell’Armata Rossa che scrive di notte poesie sulle ragazze, che sopravvive per miracolo al suo carro armato nel 1941, e in ospedale ascolta i feriti della fanteria che si lamentano dei loro fucili. In un’epoca di guerre corpo a corpo, dove a decidere l’esito non erano i droni e l’elettronica, ma le masse umane gettate nel tritacarne della trincea, il calibro, la precisione, la semplicità d’uso potevano valere la vita. Con lo Sturmgewehr, il primo vero fucile d’assalto, i tedeschi facevano il tiro a segno contro i sovietici, e il sergente Kalashnikov decise di inventare l’arma giusta. La completò nel 1947 (da cui il nome ufficiale, AK-47, Avtomat Kalashnikova ), battendo al concorso governativo i migliori ingegneri. Le malelingue dicono che aveva anche copiato le loro idee, o che addirittura fosse stato un prestanome, ma resta il fatto che il Cremlino scommette sul contadino-prodigio di soli 28 anni.
Il kalashnikov viene usato per la prima volta nel 1956, nella rivolta in Ungheria, e diventa uno degli strumenti con il quale viene scritta la storia del ’900. Inventata da un soldato, è l’arma perfetta per i soldati, semplice – il corso per imparare a usarla è di appena 10 ore e i bambini-soldato africani ci mettono ancora meno – e affidabile, capace di sparare anche dopo essere stata nel fango e nella sabbia. Con 600 colpi al minuto e precisione a lunga gittata è l’arma dei poveri, e se mr. Colt, come dicevano gli americani, ha reso eguali gli uomini che Dio aveva creato, Kalashnikov ha reso uguali i popoli, fornendo anche ai più arretrati e sperduti della Terra qualcosa con cui sfidare i potenti. Facilmente riproducibile – nei mercati afghani vendono AK-47 prodotti artigianalmente da maestri analfabeti, e in Africa spesso costa una cinquantina di dollari, meno di una capra – è ideale per le guerre civili e le rivolte. Rohe ne segue la trasformazione da «feticcio politico» dell’anticolonialismo a simbolo dei peggiori massacri e genocidi. È stato il più grande successo del made in Urss, «più della vodka, del caviale e dei romanzieri suicidi» diceva il protagonista di Nicholas Cage in Lord of War . Il prodotto perfetto, globale, che non ha mai saziato la domanda di mercato, imitato più delle borse di Louis Vuitton, generatore di un indotto planetario e capillare, al punto che gli americani lo compravano dai cinesi per rifornire i mujaheddin afghani che sparavano ai russi, armati ovviamente di kalashnikov anche loro.
Un’invenzione che avrebbe potuto fruttare miliardi, ma non è mai stata brevettata. Il suo autore non si è mai posto il problema: dal governo sovietico aveva avuto il massimo possibile, perfino una casetta dove abitava con l’adorata moglie e i quattro figli. I padri della bomba atomica hanno avuto rimorsi, ma lui che ha permesso la morte di molti più innocenti non si è mai apparentemente posto un dubbio morale, anche se diceva che avrebbe preferito inventare un tagliaerba e che era colpa dei nazisti se si era messo a progettare armi. Quando gli hanno fatto notare che il kalashnikov veniva usato dai terroristi aveva risposto soddisfatto: «La san
no lunga, anche loro preferiscono le armi più affidabili». Trovava normale che i bambini russi a scuola dovessero imparare a montare e smontare il suo mitra (in 18 e 30 secondi rispettivamente per il massimo dei voti).
Kalashnikov ha perso l’udito in poligoni da tiro, a collaudare versioni sempre nuove del proprio gioiellino, che con il suo design essenziale, il caricatore a forma di virgola e i materiali grezzi è riconosciuto in
tutto il mondo. Sopravvissuto al regime di cui era simbolo, nel nuovo capitalismo russo è finalmente diventato un «brand»: appena un mese fa Vladimir Putin ha rinominato la fabbrica di Izhevsk, dove ha lavorato per tutta la vita, «Consorzio Kalashnikov». Intanto il ministero della Difesa ha smesso di acquistare gli AK-47 per i suoi arsenali. Ma a quanto pare, a Mikhail Kalashnikov nessuno ha avuto il coraggio di dirglielo.