Paolo Mastrolilli, La Stampa 18/9/2013, 18 settembre 2013
“HO NEGLI OCCHI L’ORRORE DEI BIMBI UCCISI
DAI GAS” –
A un certo punto, uno dei medici che avevano portato i primi soccorsi mi ha detto: «Quella notte abbiamo dovuto accatastare i cadaveri dei bambini uno sopra l’altro, perché ce n’erano così tanti che non riuscivamo più a passare. Allora mi è venuto spontaneo di allungare la mano, e fargli una carezza in viso».
Trema di commozione, la voce del dottor Maurizio Barbeschi, mentre racconta l’orrore che ha visto in Siria. Lui era il capo della componente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella squadra che ha fatto le ispezioni sui luoghi dell’attacco chimico del 21 agosto, ed è uno dei tre firmatari del rapporto consegnato lunedì al Consiglio di Sicurezza. Nato a Roma, Barbeschi ha studiato in Italia, a Berkeley e al Mit di Cambridge, prima di cominciare una carriera che lo ha portato nelle zone più pericolose del mondo, dai controlli sulle armi in Iraq, alle pandemie globali. Per capire il suo mestiere, bisogna immaginare uno di quei drammatici film sulle grandi epidemie, tipo «Outbreak». Solo che Barbeschi queste scene non le vede al cinema: le vive nella realtà, da protagonista.
Lei era con gli ispettori che hanno raccolto i campioni?
«Viaggiavo sulla macchina numero uno, quella contro cui hanno sparato. Hanno mirato prima alle gomme posteriori, e poi al cofano. Poi ad altezza d’uomo».
Chi è stato?
«Io non sono riuscito a vedere. Comunque attraversavamo la zona controllata dalle milizie di Assad».
Cosa avete fatto dopo gli spari?
«Per fortuna l’auto era blindata. Siamo tornati indietro, l’abbiamo sostituita, e siamo ripartiti».
Perché?
«Per la gente, per i colleghi dell’Onu. Gli spari sono stati davvero la parte più facile di quella giornata. Moadamiyah, il quartiere dove è avvenuto l’incidente, era isolata da nove mesi: nemmeno gli aiuti Onu potevano entrare. Una situazione straziante. Ho visto un padre che girava con una bambina in braccio che pesava venti chili, e ci chiedeva aiuto. Dovevamo tornare, non potevamo lasciare quella gente senza prendere campioni e raccogliere testimonianze. Dopo di noi, infatti, anche gli aiuti Onu sono tornati a chiedere i permessi per passare».
Ha parlato con dei sopravvissuti?
«Io sceglievo le persone da esaminare e intervistare. Ho parlato con un bambino che nell’attacco aveva perso 26 famigliari. Era rimasto solo: i suoi occhi non li scorderò mai più. È vero che c’erano già stati già centomila morti nella guerra, e non esiste una classifica delle atrocità. Ma così, con le armi chimiche, mancano le parole per descrivere».
Cosa le hanno detto i testimoni?
«Ho parlato con i casi peggiori, più acuti. Mentre li visitavo ho incontrato questo medico, responsabile dell’ospedale di fortuna, e mi ha raccontato che la notte dell’attacco per andare da casa sua al luogo di cura doveva camminare sui feriti e sui cadaveri. Forse perché erano corsi a cercare aiuto, ed erano morti per strada».
Inpassatoc’eranostatialtriattacchichimici: perché questo è stato così letale?
«La quantità del gas e l’inversione termica. Per capire come funziona il sarin, dovete immaginare le discoteche quando sul pavimento rovesciano l’anidride carbonica: si spande allo stesso modo. Se fa relativamente freddo, come quella notte, resta a terra e si diffonde più velocemente. Infatti i sopravvissuti con cui ho parlato abitavano al secondo o terzo piano, dove è arrivato meno gas».
Alcuni ambasciatori hanno detto che l’alta qualità del sarin usato fa pensare alla responsabilità del regime.
«Non è nel nostro mandato stabilire responsabilità. Noi crediamo però che per vedere sintomi così forti, in persone così diverse, a cinque, sei, anche sette giorni dopo l’attacco, sia stata usata una grande quantità di gas con metodi non artigianali di dispersione. Se hanno fatto potenzialmente mille vittime, vuol dire che almeno diecimila persone sono state colpite».
Anche il metodo di lancio e i razzi incolpano il regime?
«Non è il mio campo. Però nel rapporto le traiettorie sono indicate...».
Come operatore di un’organizzazione umanitaria, che tipo di accountability si aspetta?
«L’ufficio legale ci ha spiegato che esistono tre livelli di colpevolezza: l’uso delle armi chimiche è vietato sempre, anche in guerra, ma l’uso sui civili è un’aggravante, e l’uso indiscriminato su larga scala è un’aggravante ulteriore. Il 21 agosto si sono realizzate tutte queste condizioni. Ora tocca al Consiglio di Sicurezza decidere».
Perché lei fa questo mestiere?
«Per la gente che possiamo aiutare. Ma i veri eroi sono altri, tipo le nostre mogli che hanno la pazienza di sopportarci».
Tornerà in Siria, se l’accordo tra Usa e Russia verrà confermato?
«Penso di sì, anche se poi continuerò a non dormire la notte».