Natalia Aspesi, La Repubblica 18/9/2013, 18 settembre 2013
IL MASTERCHEF DEL RE
Più invadente della politica, già di per sé oceanica, la cucina sta soffocando la televisione (e l’editoria e la rete): dovunque sbucano chef, maestri pasticceri, allevatori di capre da formaggio, casalinghe da minestrone, ciccioni vegetariani, maestre del surgelato, esperti di pane di banana, fiction romantiche tra fornelli, cuochi da incubo, fratelli coltelli, decoratori di torte, scuole per merende, bambini cuochini, grand cuisiniers più feroci dei Borgia. Anche molte sceme che mai videro una pentola e mandano a fuoco la friggitrice. È ovvio, sempre meno gente si interessa di politica e quindi aumenta il frastornamento telepolitico; nessuno fa più da mangiare, quindi vederlo fare agli altri diventa uno spettacolo acrobatico di fantasia, come certe serie televisive thriller o storiche, che guai a perdere una puntata. Eppure ci fu un tempo pretelevisivo in cui il cibo (e anche la politica) erano una cosa seria, e le trisnonne passavano i loro preziosi quadernini di ricette alle bisnonne e in giù, creando una ghiotta catena di segrete prelibatezze di famiglia che costituivano un segreto potere femminile: certo nei secoli passati i poveri morivano di fame e i ricchi di gotta, ma la gastronomia era un’arte raffinatissima, con poche star passate alla storia. Quando oggi un nostro primo ministro invita quello di un altro paese, il menù è scarno, veloce e studiato per non appesantire né le discussioni diplomatiche né lo sdutto vitino dei partecipanti; affidato a chef laureati in quantistica, offre quasi sempre, risottino alle fragole, branzino al vapore speziato con verdurine, gelato tricolore. Caffè per i più briosi.
In tempi di deliri culinari, nei secoli passati, i ricchi mangioni si schiantavano presto, però che ore di lussuria gustativa! Che meraviglioso piacere di tutto il corpo, che più si arrotondava più procurava imperio e ammirazione, anche da parte delle più inappetenti signore alla moda! Si ricorda per esempio il menù del pranzo offerto il 15 gennaio 1817 dal principe reggente d’Inghilterra, futuro re Giorgio IV, (già obeso, 120 chili più gotta, arteriosclerosi, edemi periferici ecc.) al Brighton Pavillon: quattro brodi tra cui il famoso “garbure aux choux”, quattro piatti di pesce, immancabile “la matelote au vin de Bordeaux”; quattro “pièce de resistence” tra cui “l’oie brassés aux racines glacée” con attorno trentasei entrées, tipo “le boudin de volaille à la béchamel”, cinque “assiettes volantes” con filetti di sogliola o di francolino di monte, poi otto pezzi fissi grandiosi, anche di pasticceria, con nomi come “le rovine di Antiochia”, seguiti da trentadue “entremets” (indispensabili le uova strapazzate con tartufi), e altre dieci “assiettes volantes” tutte di soufflès, di patate o di cioccolato. L’artista megalomane di questa “Grande abbuffata”, sicura strada verso il tracollo del fegato, non poteva essere che il grande Antonin Carême, meraviglioso fantasista e rivoluzionario della cucina suprema, autore di ben nove sontuosi libri, tra cui L’arte della cucina francese in cinque ponderosi volumi. La vita di questa celebrità che sotterra con la sua grandezza tutti i telecuochi contemporanei, ce la racconta con leggiadria e un attento contesto storico Edgarda Ferri in Il cuoco e i suoi re (editore Skira, pagg. 176, euro 15).
Chi volesse approfondire dovrebbe cercare, costoso anche usato, Cooking for kings di Jan Kelly, pubblicato in Inghilterra nel 2004, ricco di centinaia di ritratti di nobili ghiottoni e di disegni delle famose architetture gastronomiche di Carême, copiate dai preziosi disegni della Bibliothèque Nationale di Parigi. E con in copertina un’agghiacciante cucina d’epoca, altro che quella di Downton Abbey: alte pareti ricoperte da centinaia di pentole di rame, decine di sguatteri col famoso berretto inventato dal grande chef, cuochi spadellanti o semiasfissiati a manovrare gli spiedi, fuochi e fiamme da camini e cucine a carbone. Nel 1817 Carême aveva 37 anni, una moglie e una figlia da un’altra donna: al suo genio, in un tempo in cui, come adesso, la gastronomia era diventata un culto, era già stato affidato, al Congresso di Vienna del 1814, il compito di addolcire i rappresentanti degli stati europei che, sconfitto Napoleone, dovevano ridisegnare l’Europa e ripristinare le monarchie. È Talleyrand a portare il grande chef al suo seguito: il nobile zoppo, ex vescovo e poi principe di Benevento, ha servito e tradito tutti, la Chiesa, Luigi XVI, la Rivoluzione, e naturalmente Napoleone, ha contribuito alla Restaurazione dei Borboni e alla loro fine, con l’abdicazione di Carlo X dopo “la rivoluzione di luglio” del 1830, offrendo subito i suoi servigi al nuovo re Luigi Filippo d’Orleans.
Nel settembre del 1818 si riuniscono ad Aquisgrana monarchi e capi di stato per decidere se è venuto il momento di ritirare dalla Francia i 30mila cosacchi che la tengono in ostaggio. Lo zar Alessandro vuole Carême, a cui fa firmare un contratto principesco, 2400 franchi al mese più l’affitto della necessaria attrezzatura. Racconta Edgarda Ferri: «Lo zar non incomincia mai a mangiare se prima non ha ingollato almeno una mezza dozzina di ostriche. Carême si rifornisce di molluschi crostacei e pesci freschissimi che i sovrani fanno venire tutte le mattine a loro spese da Anversa su veloci vetture tirate da sei o otto cavalli…».
Tutti i nuovi ricchi e vecchi aristocratici vogliono il grande chef per i loro immensi pranzi, ma lui ormai vuole soltanto scrivere, di cucina, di chimica in cucina, di architettura in cucina, di abbellimento di torte e città, vuole aprire una scuola per formare massimi specialisti. Dice di no a tutti, tranne a James Mayer de Rothschild, l’uomo più ricco di Francia. Nel sontuoso palazzo di Rue d’Artois, i Rothschild ricevono principi, principesse, ambasciatori, finanzieri, poeti come Heinrich Heine, pittori come Ingres e Delacroix, il soprano Giuditta Pasta, il compositore polacco Chopin e Giacchino Rossini. A tavola discutono del mondo, ma poi finiscono a parlare delle squisitezze di Carême: la carpa à la Chambord decorata con 40 filetti di sogliola e lamelle di tartufi, la sua ineguagliabile zuppa di tartaruga: la scrittrice irlandese Lady Morgan, deliziata, paragona quei profumi e quei sapori a Shakespeare. Lo chef e Rossini si conoscono da tempo e il rotondo compositore che vive ormai a Parigi è molto esigente: «si fa mandare i tartufi e le olive da Ascoli, il panettone da Milano, i maccheroni da Napoli, gli stracchini e il gorgonzola dalla Lombardia, la mortadella, i tortellini e “il cappello del prete” da Bologna, il prosciutto da Siviglia, i formaggi piccanti dall’Inghilerra, la crema di nocciole da Marsiglia…».
Carême stravede per lui e quando il suo “Guillaume Tell” viene rappresentato per la prima volta, l’amico chef gli prepara una enorme torta di mele con al centro una mela infilzata da una freccia di zucchero. Ma l’uomo che ha servito i re e rivoluzionato la cucina francese ha respirato troppi veleni e per troppo tempo. Si ritira a scrivere, riceve i suoi allievi, le cure non servono, e si spegne il 12 gennaio del 1833, a 50 anni.