Fabrizio Barca, Il Fatto Quotidiano 18/9/2013, 18 settembre 2013
“CHIESI AI MIEI GRANDI VECCHI SE LAVORARE
CON B.” –
Nel 2001 vince Berlusconi e all’Economia arriva Giulio Tremonti.
Tremonti pensava che fossi un consulente e che quindi me ne dovessi andare. Ma nel frattempo avevo conosciuto Gianfranco Micciché, cui era stato affidato l’incarico per l’area che avevo seguito. Dopo una quindicina di giorni mi venne proposto di riprendere l’incarico di capo dipartimento. Io spiegai qual era la strategia su cui volevo muovermi e la approvarono. Ma mi posi il problema di come potevo lavorare con un governo di cui non condividevo la matrice politica e la linea, nonostante le garanzie ricevute. E quindi mi rivolsi ad alcuni “grandi vecchi” che stimavo, tra cui mio padre, per un giudizio. In un caso ci fu addirittura una votazione: con un voto non unanime – c’era un contrario – mi diedero parere favorevole a riprendere l’incarico. E quindi accettai l’offerta di tornare al mio posto come capo dipartimento. [...]
Pur avendo ottenuto il voto favorevole dei grandi vecchi cui si era rivolto, non le ha creato scrupoli lavorare nel governo Berlusconi in quegli anni?
Il capo dipartimento ha una figura con poteri importanti di raccordo, un ruolo misto tra politica e amministrazione. Mi sono sempre sentito pienamente responsabile delle cose di cui ero competente. Quando sei membro di un governo, alla fine sei responsabile di tutte le decisioni prese dal Consiglio dei ministri. Da capo dipartimento rispondi di ciò che ti è affidato, non del resto. È evidente che molte delle cose che faceva il governo Berlusconi mi trovavano in profondo disaccordo, ho anche partecipato a diverse manifestazioni in quel periodo, ma non c’era contraddizione. [...]
Lei appartiene a quella parte di sinistra che riesce a parlare di politica senza nominare Berlusconi. Come mai?
Ho parlato molto di Berlusconi, anche all’estero, negli anni in cui era potente e io ero capo dipartimento. Tutti mi facevano domande. E ho sempre cercato di spiegare che bisognava separare due aspetti. Da un lato stanno la sua vita personale con la connessa, impropria, commistione con la vita pubblica; la sua scelta di non comprendere quanto un ruolo di governo richieda riservatezza e attenzione nelle scelte private; le sue vicende giudiziarie che gravano sulla vita italiana da vent’anni. Dall’altro sta il tema – completamente diverso – del perché Berlusconi ha vinto per questi vent’anni: certo, perché si avvale della sua capacità comunicativa e delle sue televisioni, ma ci sono altre ragioni. L’Italia è un paese di ceto medio, il 16 per cento delle famiglie conta almeno un membro che svolge attività imprenditoriale, una specificità tutta italiana che sia De Gasperi sia Togliatti avevano ben colto. [...] Qual è stato il messaggio rivolto dalla sinistra italiana a questo ceto medio negli ultimi vent’anni? Una volta “passata” la tolleranza per l’evasione fiscale, per il credito facile e per certe modalità di funzionamento delle cooperative – bianche o rosse o delle banche –, per questo pezzo decisivo dell’economia italiana non è stata immaginata una nuova strategia, un ruolo, e quindi una politica. A questo popolo Berlusconi ha invece saputo parlare, con un linguaggio che non condivido, ma gli ha parlato: combinando un libertarismo estremo (che risponde alla loro pancia) con il non rispetto delle regole (che aggira la questione di uno Stato normo-centrico e arcaico). [...] C’è poi un fastidioso cotè di critiche che se la prende con Berlusconi perché suonava e cantava sulle navi da crociera: deridere il parvenu – lo siamo quasi tutti – rivela un retropensiero aristocratico che alligna dentro la sinistra.