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 2013  settembre 18 Mercoledì calendario

MOLTO PIU’ LIBERALE DEL CAVALIERE

C’è un piccolo editore nella provincia italiana profonda, nella bella Macerata, dove il rosso mattone si sposa col verde della campagna e già si sente l’odore dell’Adriatico, c’è un piccolo editore, dicevamo, che ha fatto per la cultura liberale in Italia molto di più di Silvio Berlusconi con le sue case editrici: Mondadori, Einaudi, Electa, Sperling & Kupfer e Piemme.
Si chiama Aldo Canovari, classe 1946 maceratese. Dal 1986 con la sua Liberilibri, si incarica di pubblicare opere non tradotte o misconosciute. Si parla di Discorso sul libero pensiero (nel 1990) del deista inglese Anthony Collins o la Difesa della società naturale di Edmund Burke (nel 1993) o l’opera fondamentale del filosofo e politologo Bruno Leoni, Freedmon and Law, che negli Usa era stata editata nel 1961.

Domanda. Canovari, come mai opere di questa portata, da noi non sono state mai tradotte o dimenticate presto?

Risposta. È accaduto forse per un meccanismo di autocensura che segue per inerzia a periodi di censura legale , e forse perché queste opere disturbavano il progetto culturale delle due chiese che hanno dominato per anni l’Italia: quella cattolica e quella marxista.

D. Negli anni ’80, diciamo che l’Indice di Santa Romana Chiesa non c’era più e da decenni i cattolici avevano lasciato campo libero alla sinistra, nell’università e nelle case editrici.

R. Certo, ed erano autori che alla sinistra non andavano a genio: propugnavano la libertà dell’individuo, affermavano che i diritti individuali non sono un dono dello Stato, che ogni individuo è la sola persona che ha titolo a scegliere in come spendere la propria vita ...

D. Pensatori libertari che l’Einaudi militante poteva pubblicare. E invece le Facezie di Voltaire, la casa torinese lo pubblicò nel 2004, ormai pienamente «mondadoriana».

R. Noi abbiamo avuto la soddisfazione di editarlo dieci anni prima, nel 1994. E l’anno prima avevamo pubblicato l’Inno alla gogna di Daniel Defoe, opera genialissima.

D. Le pare possibile che nel ventennio berlusconiano, cioè della tentata rivoluzione liberale, ci dovesse pensare un piccolo editore di Macerata?

R. Per carità, non ho la presunzione di essere stato il solo. Le confesso che io ho sperato che B. capisse l’importanza fondamentale della cultura per demolire la superstizione statalista, e quindi che desse un segnale forte, fondando atenei, necessari per far maturare le coscienze in senso liberale...

D. E invece il Gernetto, l’università brianzola del pensiero liberale, è arrivata tardi, anzi di fatto non è nata.

R. In 15 anni si potevano formare studiosi che avrebbero potuto contribuire a svecchiare la mentalità assistenzialista, egualitaria, statalista e conservatrice, che domina nel nostro Paese. Ma poi quei personaggi che incarnavano la cultura liberale, vedi Antonio Martino, sono stati relegati ai margini.

D. Il punto è: Berlusconi è davvero liberale?

R. Oggi non saprei rispondere. Certo, per molti anni l’ho creduto. Ma il più grande errore che posso imputargli è quello di non aver capito che la cultura viene prima dell’economia.

D. Un italiano come tanti...

R. Beh l’assistenzialismo, lo statalismo fra noi Italiani sono un tratto storico, strutturale, quasi antropologico, un bisogno antico di protezione, il ricorso ad un ente superiore. Al sorgere di un problema, ci si appella a qualcosa più in alto di noi: che può essere Dio (la religione) o, in mancanza di essa, lo Stato, come dice Pareto, allo Stato-babbo.

D. La religiosità è declinante, ma lo Stato tiene bene, mi pare. Nella sua astrattezza rassicurante...

R. Infatti, lo Stato non è che un espediente linguistico, retorico: un sostantivo collettivo , astratto e impalpabile. Se ci si pensa, non si riesce a materializzarlo, in realtà il termine «Stato» è una metafora dietro cui si nascondono singoli individui incardinati in quelle oligarchie verso le quali riponiamo talvolta speranze fideistica.

D. Lei intende magistratura, anche perché i problemi della mala-giustizia sono uno dei filoni della vostro collana di maggior successo: Le oche del Campidoglio...

R. È una caso classico di autonomia che degenera in autocrazia. In nome e col pretesto dell’autonomia, grazie al nostro ordinamento, i magistrati possono usurpare impunemente i ruoli del legislativo e dell’esecutivo. Impiegati dello Stato che, ai sensi della Costituzione, sono solo un «ordine», ma che progressivamente, e abusivamente, si sono posti come un «potere».

D. Addirittura...

R. E qui non è questione di toghe rosse o nere, è proprio un fatto di norme: tutto avviene nella piena legalità. D’altra parte, pensiamo a che tipo di carriera la legge riserva ai giudici...

D. L’avanzamento per anzianità, certo...

R. Per la precisione, è l’unico apparato in cui, in assenza di demerito, è garantita una carriera apicale. A tutti i giudici e garantito di arrivare alla Suprema corte di Cassazione.

D. Invece c’è chi di errori ne commette. Coi vostri libri ne avete raccontati alcuni.

R. Certo, c’è la storia del rettore dell’università di Salerno, Roberto Racinario, eminente studioso, massacrato a livello giudiziario per 13-14 anni e poi assolto. Altra testimonianza agghiacciante, ma ce ne sono tantissime, è quella di Edgardo Sogno.

D. Il «golpista bianco» secondo l’allora giudice istruttore Luciano Violante che lo mandò a processo..

R. Sogno, medaglia d’oro della Resistenza, ambasciatore, un grande liberale, patì la carcerazione preventiva e uscì assolto dal processo «perché il fatto non sussiste». Con il nostro Il golpe bianco di Edgardo Sogno di Pietro Di Muccio de Quattro, abbiamo voluto rievocarne la drammatica.

D. Nell’introduzione a quel saggio, lei descrive appunto le degenerazioni della casta giudiziaria e suggerisce anche una riforma, in sedicesimo, molto curiosa: il sorteggio.

R. Certo, il rischio di faziosità e di ingiustizia, è ineliminabile, ma lo si può attenuare, come si è fatto per secoli, anche nella Repubblica di Venezia. Per esempio scegliendo per sorteggio i membri di quell’organo delicatissimo di domestica giurisdizione che è il Csm.

D. Ma la sua passione liberale è mai approdata alla politica?

R. Sì, tanti anni fa. Quando accadeva, pensi, che anche in ambiente liberale, per una sorta di sudditanza alla cultura egemone, l’aggettivo liberista non andava pronunciato, per paura d’essere strumentalizzati dalla sinistra. E oggi sentiamo fior di ex-comunisti che ci danno grandi lezioni di liberalismo e di libero mercato.

D. Come mai un voltairiano come lei è al fianco di un vecchio democristiano come l’avvocato Carlo Cingolani, cofondatore di Liberilibri?

R. È un illuminato cattolico-liberale, uno dei migliori sindaci del dopoguerra, e decisivo per questa avventura, di grande curiosità e «liberalità» di pensiero. Del resto, il dialogo fra cattolici e liberali è uno dei filoni della collana che lei ha citato prima. E poi, guardi che la Chiesa ha, nel suo fondaco, un vastissimo e variegato patrimonio di pensiero, che magari custodisce per secoli e tira fuori al momento opportuno. E alcune di queste elaborazioni hanno molti punti di contatto col liberalismo...

D. Per esempio?

R. La seconda Scolastica spagnola, nel ’500, approfondì molti temi quali proprietà e povertà, economia pubblica e privata, affermando l’assoluta preferibilità del il libero mercato, della proprietà, la legittimità e grande utilità sociale del profitto e della gestione individuale. È noto che quelli della Scuola austriaca, Hayek e altri, si abbeverarono a quella fonte.

D. Il suo è un mestiere con il quale non si diventa ricchi. Chi glielo fa fare?

R. Provo piacere nel dare l’opportunità ad altri di scoprire orizzonti mentali e culturali nuovi e diversi da quelli che ci hanno nutriti e accompagnati fin dall’infanzia. La soddisfazione di vedere pubblicati Facezie di Voltaire , o Difendere l’indifendibile di Walter Block, o Tenera è la legge di Giancarlo Bagarotto (presidente emerito del Consiglio di Stato) è per me la vera moneta che ripaga tanti sacrifici.