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 2013  settembre 17 Martedì calendario

TORINO-MILAN E IL DNA, LA PREDESTINAZIONE IN UN FALLO LATERALE

È un attimo struggente. L’estate sta finendo, il tempo regolamentare è già scaduto, restano i saldi di stagione, quattro spiccioli di recupero e tutti a casa. La palla rotola fuori dal prato dove giocano Torino e Milan. Lontano, c’è un calciatore in maglia granata a terra da una manciata di secondi. Il tabellone del cambio è acceso, il sostituto è pronto. Tutto scivola sul piano inclinato delle conclusioni scontate. Attenzione: ci sono, nelle righe precedenti, due parole chiave, Torino e Milan. E ci sono dna, caratteri,
precedenti. Si condensano intorno a quella che chiamiamo predestinazione ed è solo il naturale epilogo della storia, se la conosci. Il difensore milanista Mexes accorre per rimettere dal bordo, il suo allenatore Allegri lo sprona, l’arbitro non interviene a fermare l’azione per consentire la sostituzione. Che di lì a un attimo, in un qualunque modo, il Milan pareggi una partita già persa e il Toro butti una partita già vinta è inevitabile. Ci scappa un rigore di Balotelli, ma diversamente sarebbe stato un autogol di Glik, una papera di Padelli o la deviazione di un guardalinee fuori posto. Qualunque cosa, comunque.
Poi, il giorno dopo, si scatena la caccia al colpevole. Primo accusato: l’arbitro Massa di Imperia. Lo stesso che l’anno scorso in Milan-Catania, nel finale, non fischiò un fallo di Boateng su Gomez favorendo la ripartenza che diede il gol della vittoria ai rossoneri. Secondo: l’allenatore milanista Allegri, che non ha applicato il fair play. Espressione priva di traduzione in italiano. Scrivi fair play su Google traduttore e ti risponde: fair play. Tradotto: voi non ce l’avete, okay? Terzo: l’allenatore granata Ventura. A cui si rimprovera di aver sostituito il funambolo Cerci con un paracarro, Larrondo, il giocatore che oltre a non tenere palla si è infortunato. Sono soltanto strumenti, burattini nel teatro dove si recita la stessa farsa, con variazioni sul tema. Se hai visto abbastanza rappresentazioni sai che cambiano le battute, ma non la trama. Se hai studiato criminologia ti sei imbattuto in uno strano capitolo chiamato vittimologia, dove si parla di entità con la vocazione a farsi derubare. Il Diavolo e il Toro, come vuoi che vada a finire?
Il giorno dopo son tutti lì, come in un commissariato di polizia, con la scheda dei precedenti. Dunque, Milan: la stessa squadra della partita di Coppa Italia contro l’Atalanta nel gennaio 1990? Quella. Scrissero che lì era morto il calcio (ma, come il romanzo, era già stato tumulato e sarebbe stato disseppellito infinite volte). Per i più piccini, gli smemorati e i negazionisti: Borgonovo del Milan a terra, Stromberg dell’Atalanta butta fuori la palla. Rijkaard effettua la rimessa e non la dà a un avversario ma a Massaro pensando, forse che la butti fuori lui. Quello invece spedisce in area pensando, forse: fate voi. Borgonovo, rialzatosi, non avendo, forse, visto il gesto di Stromberg va per colpire ma subisce fallo: rigore. Baresi tira pensando, forse: magari lo para. Invece segna. E il Milan passa il turno. Sabato sera forse Allegri non aveva visto Larrondo, forse Mexes non poteva disubbidirgli, forse gli avversari avrebbero fatto la stessa cosa. Di certo il Milan ha pareggiato.
Ma aveva davanti il Toro e il suo vuoto. A perdere. Cambiano i giocatori e lo reincarnano. Sul fischio finale ho chiesto a Massimo Gramellini, che del tifo granata ha fatto un cilicio, di definire questa vocazione. Prima ha risposto: “Pensiero negativo, attrae la sfortuna”. Poi ha corretto: “Paura di vincere”.
E ha ripescato un episodio simile: l’ultima volta in cui pianse allo stadio. Stagione ‘79-’80, Coppa Uefa. Torino contro Stoccarda. Andata: 0 a 1. Autogol (va da sé), di Danova. Ritorno: tempi regolamentari finiti sull’1 a 0. Supplementari. Al quattordicesimo del primo segna un eroico Graziani. Si arriva al 120° e resta un minuto di recupero. Il Toro butta fuori la palla, ma non abbastanza lontano dall’area. Il tabellone luminoso inizia un conteggio alla rovescia scandito dagli spalti in coro. Meno dieci, nove, otto… Rimessa laterale dei tedeschi, senza trucco, senza inganno, ma anche senza più tempo. Tre, due, uno. Sullo “Zero!” liberatorio un tiro senza speranza di tale Orlicher impatta su un groviglio di gambe e, forse con la deviazione di Pileggi, scavalca Terraneo.
Si chiama trauma generazionale. Non occorre aver vissuto l’esperienza, né averla sentita raccontare. È come fosse nel Dna. I ragazzi coreani di oggi hanno la fobia dei giapponesi. Le sofferenze le hanno patite i loro avi tra il 1910 e il 1945. Fra vent’anni un altro incontro Torino-Milan sembrerà segnato. Indovina come finirà?