Tina Brown, D, la Rpubblica 14/9/2013, 14 settembre 2013
IL VERO MISTERO DI DIANA
Ci risiamo. Stavolta a evocare i vecchi fantasmi della cospirazione è stata Scotland Yard, annunciando di aver avviato accertamenti su alcune nuove testimonianze secondo le quali Lady Diana e il suo fidanzato Dodi Al-Fayed sarebbero stati vittime di un assassinio. Stando al recente libro di Alan Power, The Princess Diana Conspiracy, l’accusa del più orribile dei crimini ha origine nel processo a un certo sergente Danny Nightingale, un cecchino del SAS (Special Air Service, le forze speciali britanniche) condannato per possesso illegale di armi. A sentire i suoceri di uno dei testimoni contro Nightingale, il “Soldato N.”, tra cui non ci sono buoni rapporti, questi avrebbe detto alla moglie che un’unità denominata “The Increment” aveva fatto in modo che l’autista di Diana andasse a schiantarsi contro il tredicesimo pilastro del tunnel di Pont de l’Alma, a Parigi, il 31 agosto 1997, inviando un agente dei servizi segreti camuffato da paparazzo a puntare una luce stroboscopica negli occhi dell’autista.
Le solite vecchie storie, certo, eppure Scotland Yard le sta prendendo tanto sul serio da annunciare un’indagine. E l’aspetto forse più interessante, stavolta, è che le accuse non provengono da quell’invasato di Mohamed Al-Fayed, il vendicativo padre di Dodi, che per undici anni ha accusato il principe Philip di aver ordinato a una squadra di sicari di assassinare Diana per impedirle di sposare un musulmano (dal quale, ha sostenuto, lei aspettava un figlio).
Per un certo periodo, nei frenetici mesi successivi alla tragedia, non soltanto sono spuntate migliaia di storie di complotti nelle alte sfere per provocare lo schianto della macchina di Diana, ma anche 35.000 siti di teorie analoghe, vere e proprie fabbriche di fantasie. Tutto spazzato via dalla prima delle indagini francesi, e poi dall’esaustiva inchiesta ufficiale conclusa a Londra nel 2008.
Sono entrata in questo universo alternativo mentre facevo ricerche per il mio libro, Lady Diana Chronichles. Trovavo assolutamente convincente l’indagine rigorosa condotta per tre anni da Lord Stevens, ex capo della Metropolitan Police (Scotland Yard), che aveva ricostruito quanto accaduto nel tunnel servendosi di laser 3D e modelli computerizzati, dimostrando così che l’autista, Henri Paul, aveva perso il controllo del veicolo prima di entrare nel tunnel a 120 chilometri all’ora. Il flash di luce prima dello schianto era stata l’invenzione di un bugiardo patologico con precedenti penali di nome François (Levistre) Levi.
Erano emerse prove tossicologiche incontrovertibili del fatto che Henri Paul fosse ubriaco e sotto l’effetto di farmaci. Ma non lo aveva dato a vedere. Non presentava alcun segno di ubriachezza evidente, non barcollava né biascicava. In caso contrario, diverse persone gli avrebbero impedito di salire su quella Mercedes, reclutato all’ultimo minuto, per accompagnare Diana e Dodi. Quella sera era parso perfettamente lucido a quasi tutti quelli che l’avevano visto (non tutti), ma la verità è che aveva mescolato alcol e medicinali – Prozac e Tiapride – le cui avvertenze sconsigliano l’assunzione con bevande alcoliche, in quanto possono mettere a rischio la guida o l’utilizzo di macchinari.
Agli autisti della famiglia reale è espressamente vietato assumere alcol a meno di dieci ore dal momento in cui si metteranno al volante. Eppure il tasso alcolemico di Henri Paul dimostrava che doveva aver bevuto anche prima che lo richiamassero inaspettatamente perché si tenesse pronto al Ritz alle 22. Quella sera raggiunse le guardie del corpo al bar dell’albergo e bevve un paio di bicchieri di quello che sembrava succo di frutta, scherzando sul fatto che fosse ananas. Quel «liquido giallo» era in realtà pastis Ricard, l’aperitivo al gusto di anice. Robert Forrest, professore di tossicologia forense a Sheffield, ha testimoniato nell’ambito dell’inchiesta Stevens che prima di quei due drink Paul poteva aver bevuto «qualcosa come altri quattro-sei Ricard» tra le 19, ora in cui era smontato dal servizio e la convocazione delle 22. Non era nelle condizioni di poter sfrecciare a rotta di collo in un tunnel che in 15 anni aveva già visto 34 schianti e 8 vittime. «Non ho mai visto nessuno schizzare via a quella velocità», ha detto uno dei fotografi a una tv tedesca, descrivendo il momento in cui Henri Paul era partito dal Ritz. «Guidava come un criminale».
Le domande più rilevanti sollevate da Al-Fayed, che ora riemergono nel libro di Power, riguardavano la misteriosa Fiat Uno bianca avvistata nel tunnel, che trasportava un cane con la museruola sul sedile posteriore, sulla quale è stato costruito tutto un sottogenere di teorie del complotto. La Fiat, entrata da una rampa di raccordo, si trovava alla destra di Henri Paul quando quest’ultimo cominciò a sbandare nel tunnel a oltre 120 all’ora. In quel momento Paul aveva già imboccato la traiettoria fatale, dopo aver incontrato il famigerato avvallamento e la leggera curva della strada. Sterzò a sinistra per evitare la Fiat, della quale urtò leggermente il fanale posteriore sinistro, raschiò la fiancata contro il terzo pilastro, sterzò a destra e infine di nuovo verso il tredicesimo pilastro. Nel frattempo, la Fiat l’aveva superato. E scomparve. Alla fine la polizia francese interrogò Le Van Thanh, un idraulico e guardiano notturno vietnamita sospettato di essere il proprietario della Fiat, ma c’è voluto il lavoro investigativo di Scotland Yard nel 2006 per appurare che i francesi avevano effettivamente individuato l’uomo giusto. E non aveva preso parte a nessun complotto. Dietro il fatto che Thanh non si fosse costituito, e che avesse poi rapidamente riverniciato l’auto di rosso, non c’era alcun motivo oscuro. Era semplicemente un immigrato impaurito dall’idea di ritrovarsi impigliato nelle leggi francesi, per le quali non fermarsi sul luogo di un incidente costituisce reato.
È vero che la Fiat Uno ha complicato le cose per Henri Paul, ma solo perché stava correndo troppo, e in quel momento la Mercedes era già condannata.
La più tenace delle illazioni di Mohamed Al-Fayed, anche questa riciclata da Power, era che Diana fosse incinta. Il referto medico originale non lascia spazio a dubbi: non lo era. La fotografia mostrata da Al-Fayed, in cui il ventre della principessa presenta un accenno di protuberanza, è stata scattata prima che lei conoscesse Dodi. Quanto alle forze oscure che avrebbero organizzato lo schianto, un complotto sarebbe stato fuori dalla portata di qualsiasi intelligence, così come di tutti gli orchestratori nascosti a Buckingham Palace, di cui sono popolate le verdi colline della fantasia dei tabloid: si sarebbe dovuto sapere in anticipo che Dodi avrebbe preso le decisioni che prese, che al volante ci sarebbe stato Henri Paul, che sarebbe stato ubriaco e sotto l’effetto di farmaci; che non avrebbe seguito il tragitto più ovvio per raggiungere la casa di Dodi; che i movimenti del controverso gruppo di paparazzi, le auto o le moto, sarebbero stati coordinati fino all’ultimo secondo; che Dodi e Diana non avrebbero indossato le cinture di sicurezza e via dicendo, in una serie infinita di variabili.
Se le nuove accuse riescono ora ad attecchire è forse perché ancora oggi risulta difficile credere che il semplice destino abbia potuto essere cosi crudele con la giovane bellissima madre di due principi molto amati. La scena vista sotto i neon spettrali di quel tunnel 16 anni fa era così carica di orrore che non smetterà mai di ossessionarci. Dopo lo schianto, la lussuosa Mercedes si trasformò in un ammasso di lamiere, con il muso rivolto nella direzione da cui era venuta. Il fumo che saliva dal motore si mescolava con i vapori della benzina e l’odore di bruciato. Il clacson continuava a suonare, schiacciato dal corpo senza vita dell’autista. Si sentivano le sirene della polizia e dei pompieri in arrivo. Romuald Rat, il paparazzo che per primo arrivò sul luogo dell’incidente, trovò Diana accasciata sul pavimento del veicolo distrutto, piegata in due e con la testa infilata tra i sedili anteriori, rivolta all’indietro. I gioielli – un braccialetto con sei fili di perle, un orologio d’oro erano sparpagliati. Diana respirava ancora, non presentava ferite evidenti. Aveva il corpo coperto da uno dei tappetini dell’auto. Quello di Al-Fayed era straziato e senza vita, i jeans strappati. Rat sollevò il tappetino e lo usò per coprirgli i genitali in vista.
La polizia fece sgomberare tutte le strade lungo i sei chilometri percorsi dall’ambulanza per raggiungere l’ospedale Pitié-Salpêtrière, sulla Rive Gauche, oltre la cattedrale di Notre-Dame. Stavolta a guidare le motociclette che accompagnavano Diana erano dei guardiani, e non degli aggressori. Superati i grandi cancelli in ferro battuto, Diana fu prelevata da due barellieri, con l’aiuto del ministro dell’Interno Jean Pierre Chevènement e dell’assistente Sami Nair. Mentre la trasportavano al Pavillion Cordier, al pronto soccorso, Nair posò lo sguardo su Diana. «Aveva il respiratore e gli occhi gonfi, ma era ancora bellissima. Il suo viso era incantevole, sereno, giovane. È stato toccante. I capelli biondi le davano un’aria raffaelita, il ministro mi disse: “E bellissima, vero?”. Bellissima». Così bella che, proprio come per il caso JFK, le teorie sulla sua morte prematura e insensata non finiranno mai.
(© 2013, Newsweek/Daily Beast Co. LLC)