Massimiliano Panarari, Europa 17/9/2013, 17 settembre 2013
LA FRAU CHE VINCE VINCE
L’Economist che, come risaputo, non ci va giù sottile – e altrettanto notoriamente non stravede particolarmente per quelli che considera “mangiacrauti” – titola, a proposito delle imminenti elezioni tedesche, «Discesa nella banalità». Che è anche, e volutamente, la cifra stilistica della leadership di Angela Merkel.
La signora Merkel, però, si rivela anche, al medesimo tempo (incontestabilmente e a dispetto delle “dimesse” origini Ossi), un prodotto dei processi di presidenzializzazione e personalizzazione della politica dei nostri tempi. Un’icona anti-iconica. La portatrice di un carisma “da assenza (apparente) di carisma”. Esattamente quello che si vede effigiato ai bordi di viali e strade delle città tedesche nel manifesto che riporta lo slogan “La Germania in buone mani” (naturalmente le sue, all’uopo ritratte nei cartelloni). E cos’è questa, se non una sintesi idealtipica, secondi i canoni più puri della comunicazione politica postmoderna, di quel connubio di storytelling (con la narrazione di sé) e immagine del leader che spopola in tutte le società dello spettacolo ai quattro angoli del Villaggio globale?
Certo, visto che la storia ha ancora una qualche importanza, Frau Kanzlerin la declina a modo suo, con tratti psicologici peculiari e “travestimenti” (da chimica e scienziata, la professione iniziale, a robusta “massaia” all’occorrenza). E lo fa, necessariamente, anche all’insegna della permanenza di lunga durata di una “via tedesca alla leadership”, sulla quale, specialmente sul suo versante politico, pesa assai la lezione di Helmuth Kohl, statista alquanto novecentesco, che il 9 novembre del 1989 accompagnò tuttavia il paese al di fuori del Secolo breve.
La Germania post-seconda guerra mondiale nella versione della “Repubblica di Bonn”, come noto, dovette abbassare molto la cresta, dopo il regime nazista e i disastri dei decenni precedenti, adottando, tra diktat degli Alleati e senso di colpa, uno stile di comando molto più felpato e domestico (oltre che “addomesticato”) nei suoi capi dei governi. Compreso quell’indiscutibile gigante che fu Kohl, l’artefice della riunificazione, ma sempre democristiano e capace di un’intesa più che cordiale con François Mitterrand, interprete perfetto quindi di quell’egemonia riluttante che la Germania detiene sul campo, e fino a poco tempo fa non poteva permettersi di proclamare ai quattro venti (ma sulle modalità del cui esercizio rimane tuttora piuttosto confusa). Un “pudore” tanto radicato che neppure il glam, ipermodernizzatore e Neute Mitte di Gerhard Schröder, travolto da irrefrenabile passione per lo spin doctoring e il modello blairiano, si sentì di scalfire.
La leadership merkeliana, dunque, c’è, e tutta quanta (con aggiunta di ben più di una spolverata di bismarckiano pugno di ferro, come ben sanno soprattutto i mediterranei e gli europei del Sud). Per di più condiziona l’immaginario, anche pop, di una nazione dove, sebbene la condizione femminile sia nettamente migliore e più paritaria di quanto avviene in qualsiasi altro luogo del Vecchio continente (a eccezione di quelli che stanno più a Nord), una donna tanto potente non si era vista mai.
Leadership e personalizzazione di fatto, quelle della Merkel, ma anche, giustappunto come nel caso della “coscienza tedesca” odierna, un po’ (usiamo un eufemismo…) irrisolte. Perché, se una delle funzioni essenziali dell’immagine di un leader consiste nel generare, nei diversi target e segmenti dell’opinione pubblica, un sistema di attese e aspettative cui il politico possa poi rispondere accrescendo il proprio consenso, nella sazia e disorientata “prima della classe” germanica la cosa non è affatto automatica. E, infatti, le prossime notti della Cancelliera verranno presumibilmente funestate da un incubo ricorrente chiamato Grosse Koalition…