Michele Lanati, Lettera43 17/9/2013, 17 settembre 2013
LA FORNERO VA NEL PALLONE
Se il calcio italiano, il cui indotto ammonta a 1,5 miliardi di euro, fattura la metà esatta della Premier league - la Bundesliga tedesca s’è fermata a 1,9 e la Liga spagnola a 1,7 - la colpa è soprattutto di un sistema ormai vetusto che non riesce a stare al passo con i tempi.
Stadi vecchi e scomodi, problemi di ordine pubblico irrisolti, continui scandali, incapacità di valorizzare il prodotto e fare marketing sono senza dubbio le cause più rilevanti.
Ma negli ultimi anni il calcio italiano ha anche perso appeal perché il livello tecnico si è drasticamente abbassato, in tutte le categorie. Lo specchio di questa involuzione è la Lega Pro che, a causa di una serie di riforme discutibili, ha impoverito lo spettacolo offerto e fatto fuggire il pubblico. E così l’ex serie C che prima sfornava talenti che si affermavano anche in serie A, ora si ritrova a lanciare giocatori poi costretti a scendere tra i dilettanti. O a cambiare lavoro.
L’ultima decisione dei vertici riguarda l’introduzione della figura dell’apprendista calciatore, recependo una delle novità previste dalla legge Fornero nell’ambito della riforma del mondo del lavoro. In pratica le società possono avvalersi di questa nuova figura professionale - derogando da quanto previsto dal contratto unico che si applica a tutti i giocatori professionisti - che è destinata a portare a una riduzione del costo del personale.
I club possono quindi risparmiare sugli emolumenti e anche attingere da un vecchio fondo istituito nel 2000, che mette a disposizione 8,5 milioni di euro. Poi, dopo un massimo di tre stagioni di apprendistato, l’atleta diventa calciatore a tutti gli effetti.
Al momento è previsto che questa formula venga sperimentata per i prossimi tre anni in Lega Pro, con l’auspicio di poterla poi allargare anche a serie A e B.
Secondo i vertici della ex serie C, questa innovazione è destinata a portare alla creazione di 600 nuovi posti di lavoro.
Ciò contrasta però con la decisione (finalmente esecutiva, dopo decenni di tentennamenti) che prevede una riduzione delle società professionistiche, correggendo almeno in parte un’anomalia tutta italiana che fa del nostro Paese quello con più club professionistici di calcio al mondo.
La riforma è appena entrata in vigore e dovrebbe portare nel giro di 12 mesi al passaggio dalle attuali 111 a 96 squadre (con la fusione di Prima e Seconda divisione e il ritorno a una terza serie nazionale unica).
Nei due gironi dell’ex C1 della stagione 2012-13 non sono previste infatti retrocessioni e nei due raggruppamenti dell’ex C2 non ci sono promozioni.
Come si possa però pensare tramite l’introduzione della figura dell’apprendista calciatore di incrementare in modo considerevole il numero di posti di lavoro disponibili, diminuendo nel frattempo il numero delle squadre (che già adesso hanno in rosa oltre 20 atleti), resta un mistero. Peraltro anche le modalità di esecuzione della riduzione delle società professionistiche sono alquanto discutibili. È vero che la riforma è andata in porto solo dopo sforzi immani per vincere innumerevoli resistenze, da parte sia dei club sia dei calciatori. Dunque qualche concessione i vertici della Lega Pro hanno giocoforza dovuto concederla alle varie parti in causa, che hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per allungare il più possibile i tempi della sforbiciata.
Però, ad appena due anni di distanza dallo scoppio dell’ennesimo scandalo italiano legato al calcioscommesse, l’idea di abolire le retrocessioni in Prima divisione e le promozioni in Seconda è apparsa alquanto imprudente. Così facendo molte squadre sono destinate a trovarsi a metà stagione, o forse anche prima, senza alcuno stimolo, essendo in Prima divisione magari lontane dai play off che mettono in palio l’accesso in serie B e in Seconda al riparo dal rischio di retrocedere in serie D e il rischio di assistere di nuovo a gare combinate appare decisamente elevato.
Inoltre, alla luce dei numerosi fallimenti registrati negli ultimi mesi, c’erano le condizioni per passare già in estate alla terza serie nazionale unica. Sarebbe bastato dividere in tre gironi le squadre in regola, aumentando magari le retrocessioni per avere nella stagione 2014-15 raggruppamenti ancora più snelli. Invece la Lega Pro ha optato per il mantenimento ancora per una stagione delle due categorie, ricorrendo al ripescaggio di tutte le società di serie D che hanno fatto richiesta di essere ammesse tra i professionisti per poter completare gli attuali quattro gironi.
E sempre in Lega Pro gli incentivi economici alle società affinché utilizzino i giovani si è rivelato un boomerang.
Fino alla stagione 2013-14 i club che impiegavano in pianta stabile ragazzi sotto i 21 anni ricevevano cospicue somme di denaro, poi ripartite sulla base di quanti baby erano realmente utilizzati e dell’età dei giocatori (il criterio seguito era che più fosse giovane l’atleta, più fondi erano pagati).
Risultato: hanno trovato sempre più spazio ragazzini dalle dubbie capacità che, dopo aver passato la soglia dei 21 anni, si sono trovati in serie D o in Eccellenza.
Dalla stagione 2013-14, la formula è cambiata e la Lega Pro ha previsto l’introduzione di una soglia di età media da rispettare nelle varie gare per poter aver accesso ai contributi previsti dalla norma (25 anni per la Prima divisione e 24 per la Seconda).
In questo caso, più elevato è il numero di partite in cui l’età media della squadra è nei parametri richiesti e maggiori sono i finanziamenti. Il che, soprattutto in Prima divisione, dove non ci sono retrocessioni e dunque per molti club non c’è l’assillo di fare risultato a tutti i costi, ha portato all’allestimento di rose giovanissime e dal livello tecnico piuttosto basso.
Per contro molti giocatori considerati esperti per la categoria sono stati costretti a scendere tra i dilettanti per trovare un ingaggio decente. E nel frattempo lo spopolamento degli stadi, in atto da anni in tutti i campionati, ma particolarmente accentuato in quelli dell’ex serie C, ha subito un ulteriore colpo di acceleratore.