Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 17/09/2013, 17 settembre 2013
ANTIFASCISTI SEPOLTI NEL GULAG
«Non rivedrò più te, né mio figlio, né fratelli, né compagni. E io che sognavo una morte gloriosa all’ombra di quella bandiera per cui ho dato e sono pronto a dare la vita! Mi trovo nella regione più infame che ci sia: 40 gradi di freddo e manca tutto. Guai se mi mettessi a raccontare quello che mi capita... Ti pare giusto arrestare altri dieci italiani solo perché erano miei amici, e tre operai russi che della mia questione non sanno nulla?».
È straziante rileggere — nel nuovo saggio di Arrigo Petacco A Mosca, solo andata, che la Mondadori manda oggi in libreria — la lettera scritta dal Gulag alla moglie Angelina da Luigi Calligaris, un uomo che Leo Valiani — confinato con lui a Ponza — definì «una delle figure più eroiche della lotta antifascista», arrestato e deportato all’inizio delle purghe staliniane. «Angiolina mia, ti supplico, anche se non dovessi più scrivere, fin che hai un attimo di respiro insisti di voler sapere dove sono finito. Scrivi alla Croce Rossa, a Parigi, va a Roma dall’ambasciatore russo e insisti per sapere cosa hanno fatto di me. Se ti diranno che mi sono ammazzato, che sono finito sotto un’automobile, non credere e non credere neppure se ti mostrassero le firme dei testimoni. Questo (...) è il grido disperato di un comunista che, dopo avere visto la morte sui campi di battaglia della guerra imperialista e della lotta politica, non vuole fare una morte ingloriosa per mano dei propri fratelli».
L’angoscia di Calligaris non era immotivata. Non era solo la prospettiva della persecuzione, dell’arresto, della tortura, della morte a terrorizzare i comunisti italiani riparati in Unione Sovietica per sfuggire alla dittatura fascista, e finiti nelle grinfie di un altro regime fintamente amico e in realtà di paranoica spietatezza. Ancora più dolore dava la prospettiva di non lasciare traccia, di sparire nel nulla, di lasciare un nome infangato da false accuse agli occhi dei compagni. E infatti Calligaris finirà inghiottito dalla macchina della repressione. Di lui non si è saputo più nulla. Con lui nel gennaio 1935 furono arrestati altri otto comunisti italiani, sotto l’accusa di avere mantenuto contatti con i bordighisti-trotzkisti all’estero. Furono i primi di una lunga serie. Tra loro c’era anche Ezio Biondini, il ragazzo che nel 1924, a 17 anni, era riuscito a issare sul castello di Udine una enorme bandiera rossa che vi sventolò per tre giorni (i fascisti non riuscivano ad ammainarla). La sorte di Biondini fu terribile. Condannato ai lavori forzati in Siberia, ricondannato a fine pena, condannato per una terza volta, liberato nel 1946, tornato a Mosca nel 1950, arrestato per aver chiesto il rimpatrio all’ambasciata italiana, si vide infliggere altri 25 anni di lavori forzati. Morì poco dopo nel campo di Krasnojarsk.
Il libro di Petacco, uno scrittore che studia come uno storico e racconta come un giornalista, va letto sia perché restituisce memoria a tante storie perdute o dimenticate, tra cui quelle di molte donne. E perché affronta un tema essenziale: le compromissioni del comunismo italiano, a cominciare da Togliatti, nei crimini dello stalinismo. Petacco individua una figura-chiave in Paolo Robotti, il marito di Elena Montagnana, sorella di Rita, la moglie del segretario generale. Robotti, «l’uomo di marmo» incaricato di sorvegliare i compagni espatriati a Mosca, divenuto a sua volta vittima, invano torturato dalla polizia politica nella speranza di incastrare il suo illustre parente. Il rimorso lo accompagnerà per tutta la vita, ma quando nel 1961, otto anni dopo la morte di Stalin, cinque dopo il XX congresso del Pcus, Robotti preparò una lista di 125 compagni fucilati da riabilitare (una piccola parte di quelli travolti dalle purghe), Togliatti lesse il foglio svogliatamente, poi lo accartocciò e lo gettò nel cestino: «Queste sono cose da dimenticare. Meglio non parlarne».
Il ruolo di Togliatti — controllore e controllato — e del Pci in quegli anni terribili è rimasto limitato al dibattito accademico, e le rare volte in cui è entrato nella discussione pubblica è stato strumentalizzato e piegato a fini di parte, come nel caso della lettera — manipolata — di Togliatti a Stalin sulla sorte degli alpini prigionieri in Russia. Invece è possibile, e anzi doveroso, affrontare l’argomento senza secondi fini, ad esempio senza affievolire la fermezza della condanna del fascismo e delle sue atrocità, che pure ci furono, ma anche senza nascondere che il mito del comunismo italiano è stato costruito anche occultando le responsabilità del suo leader storico e dei più stretti collaboratori.
È impressionante come fino all’ultimo anche le vittime, tornate dall’Urss dopo anni di prigionia e di stenti, continuassero a mentire o a tacere, pur di non incorrere nella condanna massima: il disconoscimento del partito. E allora è importante scrivere e leggere le loro storie, anche quando sembrano tratte dal teatro dell’assurdo. Come la vicenda di Andrea Bertazzoni, alias Mukas, specialista caseario di Mantova messo a capo di un kolkhoz agricolo di Rostov che produceva formaggi. Bertazzoni pensò di far conoscere ai russi il gorgonzola. Sorpreso mentre iniettava la muffa nella pasta, fu creduto un sabotatore, torturato, condannato a morte. Lo salvò dal plotone d’esecuzione il commissario agli Esteri Maksim Litvinov, che alla conferenza di Genova del 1922 aveva apprezzato il gorgonzola.
Aldo Cazzullo