Ilaria Maria Sala, La Stampa 17/9/2013, 17 settembre 2013
A PECHINO LA CENSURA NON BASTA CARCERE PER I BLOGGER SCOMODI
Non credere alle voci infondate. Non spargere voci infondate. La spiegazione del governo è l’unica prova fondata»: la frase, scritta in caratteri bianchi su drappi rossi, è l’ultima arrivata nell’infinita serie di slogan propagandistici che dagli Anni Cinquanta segnano le campagne politiche in corso in Cina. Veicolata come sempre con striscioni per le strade, quest’ultima campagna segna anche il momento in cui la censura ha finalmente marcato il passo con la tecnologia, riuscendo a dare il colpo più duro ai social network. Finora ci avevano provato con la censura diretta. Un esercito di sorveglianti dei siti social, che cancellavano in tempo reale ogni post troppo critico nei confronti del Partito o del governo, o troppo impertinente nel proporre riforme. Ma i social e i siti di microblogging simili a Twitter, chiamati in Cina weibo, vanno troppo veloci, e qualcosa sfuggiva sempre da sotto le maglie. Cancellato, il post ricompariva ritwittato da altri, e l’esercito di sorveglianti doveva comunque agire in difesa. Ora, con la nuova legge contro le «voci infondate» in vigore da lunedì, invece, si gioca d’attacco: una notizia che il governo considera «non vera» distribuita sui social e ritwittata 500 volte può costare tre anni di detenzione. Lo stesso vale per una pagina web, di nuovo contenente le notizie che il governo dichiara«infondate», visitata 5000 volte. E dopo alcuni arresti eccellenti, cos’altro resta se non l’autocensura? Secondo alcuni conteggi, infatti, il traffico su Sina Weibo, il sito di microblogging più popolare, sarebbe già diminuito del 30%.
Le nuove misure colpiranno più duramente quelli che in Cina sono chiamati i «Grossi V», ovvero i titolari degli account weibo più popolari. Sono contraddistinti da una piccola V di fianco al nome, che sta per «verificato». La stessa lettera compare anche su Twitter, accanto ai nomi delle celebrità o di chi ha molti follower. Fra di loro c’è Charles Xue Manzi, un uomo d’affari sino-americano che aveva 12 milioni di «seguaci» su weibo e che era noto per i suoi post critici delle autorità, arrestato ad agosto con l’accusa di aver adescato alcune prostitute. Due anni fa aveva lanciato una campagna per salvare i bambini rapiti, ma le sue dichiarazioni pro-democrazia lo avevano reso un blogger-non-gradito. Ora, è divenuto il bersaglio di articoli che lo denigrano e lo ridicolizzano, come quello pubblicato ieri da Xinhua, l’agenzia di stampa cinese: «Si comportava come un imperatore su Internet… un uomo arrogante che prima non era nessuno…» e che, in una confessione trasmessa dalla televisione, ha detto «la mia irresponsabilità nel diffondere notizie online era solo un modo per sfogare i miei umori negativi». Xue, dice Xinhua, «vergognandosi delle sue azioni passate ha offerto di comparire in televisione in manette, per servire da esempio negativo». Non c’è più la gogna, non ci sono più i cartelli appesi al collo della Rivoluzione Culturale, ma ci sono queste terribili confessioni in tv, per umiliare i condannati davanti a tutti e per costringerli ad accettare la loro «giusta» punizione.
Venerdì scorso, divenuto noto come il «venerdì nero» per i social media in Cina, è stata la volta di Wang Gongquan, altro «Grosso V» arrestato per aver «disturbato l’ordine pubblico», in cui per la prima volta la parola «pubblico» è utilizzata per indicare il web, spazio comune che può essere «disturbato» da post impertinenti. Wang, con 1.6 milioni di follower, è un amico stretto di Xu Zhiyong, l’avvocato per i diritti civili detenuto da aprile, ma arrestato formalmente solo dal mese scorso, a causa del suo «Movimento dei Nuovi Cittadini» che proponeva maggior supervisione del Partito e varie riforme civiche e politiche. Wang, noto per aver perorato in modo pubblico le cause di chi ha subito angherie dalle autorità, ha scritto vari post chiedendo la liberazione di Xu, segnando il suo destino. È probabilmente il primo miliardario cinese finito agli arresti non per corruzione o frode, ma come vittima illustre della campagna contro le «voci infondate», con cui la nuova leadership cinese ha detto chiaro e tondo che il potere di Internet può essere limitato e messo sotto controllo. A cominciare da chi si era illuso che la celebrità, o il successo in affari, potessero servire da scudo di protezione.