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 2013  settembre 14 Sabato calendario

GIULIO FERRONI: «CERVANTES E STENDHAL, LA LETTERATURA È INFINITA»

Alla fine dello scorso maggio ho rimesso piede alla Sapienza, dove studiavo vent’anni fa. Prendeva congedo uno dei suoi ultimi grandi docenti: Giulio Ferroni. Solo in un’altra occasione, mi accorgo, non sono mancato all’ultima lezione di un maestro: quella di Edoardo Sanguineti, a Genova nel 2000. Due opposti: l’algido, il tagliente Sanguineti si emozionò sino alle lacrime; il passionale, il sanguigno Ferroni è stato lieve, lesto, quasi giulivo. Il tema di Come si finisce gli appartiene, del resto, ben oltre l’occasione personale. Mi sono ricordato della passione con cui in quelle stesse aule, fra studenti e neolaureati, veniva discusso nel 1996 il suo saggio Dopo la fine , col sottotitolo «Sulla condizione postuma della letteratura». Contava più la «fine» o il «dopo»? La letteratura era una forza del passato, da limitarsi a storicizzare, oppure poteva ancora darsi, in futuro? Un paio di volte l’autore assisté a quelle discussioni, ridendo sotto i baffi. E badando bene a non orientarle in un senso o nell’altro.
Di recente il suo Gli ultimi poeti , dedicato a Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto, ha sollevato quasi altrettante discussioni: anche stavolta a partire dal titolo. Fu proprio a un corso di Ferroni, nel ’94, che per la prima volta vidi in carne e ossa non solo Giudici e Zanzotto – che tenne un’indimenticabile lezione su Dante – ma diversi altri autori incontrati, prima, solo sui libri: da Vincenzo Consolo allo stesso Sanguineti. Fra le cose che mi ha insegnato, Ferroni, c’è che un autore amato lo si può incontrare vivo – in tutti i sensi. Nel 2010 un’edizione ampliata di Dopo la fine ha avuto per sottotitolo «Una letteratura possibile». Pochi giorni dopo la festa per i suoi settant’anni, il 14 agosto (colonna sonora, certo, la Mina de L’importante è finire …), sono andato di nuovo a trovarlo nella sua casa nel verde dei Castelli.
Quando è iniziato l’interesse per la fine?
«Verso la metà degli anni Ottanta, stavo scrivendo la mia Storia della letteratura italiana e c’era il problema di come concluderla… Mi rendevo conto che il senso della letteratura è legato a quello che c’è prima e dopo i testi, al “mondo non scritto” di cui parlava Calvino. Un interesse nato con l’insegnamento: mi ha sempre colpito il momento in cui si entra in aula e bisogna cominciare a parlare. Quell’incertezza per me è un momento vitale, fondamentale. E mi fa pensare al modo in cui iniziano e finiscono le loro opere gli autori, a come interrompono il silenzio». E quali sono le opere più de­ cisive? «A parte i grandi classici della letteratura italiana, su cui continuo a tornare, anzitutto Don Chisciotte , che contiene l’intera esistenza nella sua contraddittorietà. Sempre più, poi, mi piace rileggere Stendhal: col suo vitalismo che si piega nel suo contrario, nell’ironia più sottile. Ma tra Cervantes e Stendhal metto la musica di Mozart. Passione e ironia, insieme, accomunano Cervantes, Mozart e Stendhal».
La sua generazione è quella che ha «fatto il Sessantotto». Ma proprio ad esso molti im­ putano non solo l’eclisse dei maestri, ma la fine di ogni for­ ma di autorevolezza…
«Quello che chiamiamo Sessantotto è qualcosa di molto complesso e contraddittorio. La critica non era rivolta all’autorevolezza, bensì all’autoritarismo. Poi, a distanza di anni, le conseguenze di quel rivolgimento hanno incontrato profonde modificazioni sociali ed economiche; e c’è stato un complessivo ritorno indietro».
Negli anni Novanta, comun­ que, pareva possibile incon­ trare un maestro non autorita­ rio. Qualcuno che, con tutte le incertezze del nostro tempo, restasse portatore di un inse­ gnamento che poteva essere trasmesso...
«In quegli anni, dopo il crollo del Muro di Berlino e di Tangentopoli, pareva finalmente possibile una democrazia aperta. Sappiamo cos’è successo, invece, nei vent’anni successivi. Il Paese s’è impantanato nella palude in cui resta tuttora. E problemi decisivi restano irrisolti. Il più grave è quello ecologico: l’equilibrio del pianeta è stato modificato irreversibilmente, miliardi di persone vivono in una catastrofe quotidiana e senza rimedio. I conflitti sociali, politici e religiosi cui assistiamo si devono anche al vivere invivibile cui sono condannate intere popolazioni».
Un sorprendente saggio auto­ biografico del 2009, «La pas­ sion predominante», si legge anche come documento sulla cultura come emancipazione sociale. Vi si ricordano certe «persone qualunque e senza storia» che per te hanno con­ tato più di celebrati maestri…
«Devo a loro la passione per la cultura, sì. Che allora davvero voleva dire speranza in un mondo migliore: speranza di giustizia, per esempio. Penso che possa ancora emanciparci, la cultura, se intesa come consapevolezza del limite. Dell’insufficienza di qualsiasi esperienza soggettiva e, insieme, dei limiti del sistema cui apparteniamo. La nostra società si basa invece sull’accelerazione indiscriminata, sul culto dell’eccesso, sull’ignoranza appunto di ogni limite».
Emancipazione concreta è quella della cosiddetta terza età. Chi va in pensione, oggi, conduce una vita molto più ricca di interessi e attività che in passato.
«È il tempo in cui coltivare un’ecologia personale, capire cosa per noi conti davvero. Rileggendole, “scopriamo” opere che avevamo trascurato. Per esempio ho riletto Le affinità elettive di Goethe, che in gioventù avevo detestato… naturalmente è un capolavoro, un gioco geometrico formidabile».
«La passion predominante», li­bro sugli inizi, si conclude con un capitolo intitolato «La pas­ sione del futuro».
«Non possiamo inoltrarci nel futuro se non volgendo lo sguardo alle nostre spalle: cercando nelle origini cosa ci ha dato la spinta per giungere al punto dove siamo oggi. E allora per me unica via possibile resta quella che ho definito “postuma”, sempre consapevole del suo venire dopo. Della modernità, che oggi sono in molti a rimpiangere, dovremmo recuperare la dimensione critica che il postmoderno ha abiurato. Tanto nelle sue componenti illuministiche che in quelle irrazionalistiche, la modernità era percorsa da una volontà di sapere, di capire, di guardare la realtà al di là delle mistificazioni e delle illusioni. In fondo, se Cervantes e Stendhal sono per eccellenza moderni è proprio perché, subendone il fascino, raccontano l’inesauribile sforzo dell’uomo di andare oltre le illusioni».