Antonio Scurati, La Stampa 15/9/2013, 15 settembre 2013
MARTIN AMIS I NEOBARBARI AL COMANDO
Uno di questi giorni dovremo ridare alla parola decadenza un significato più ampio di quello di un caso personale. Perfino la nostra scialba storia non merita di essere ridotta a cronaca giudiziaria (o anche a cronaca politica).
Presto o tardi dovremo fare i conti con l’«egemonia sottoculturale globale» che si va affermando in Occidente. E meglio sarebbe farli prima che lei chiuda i conti con noi. Questi conti li ha fatti Martin Amis nel suo ultimo romanzo Lionel Asbo. Lo stato dell’Inghilterra (in uscita in Italia da Einaudi, pp. 250, € 17).
Andare a letto con lo spirito del tempo è il compito del romanziere. Andarci senza lasciarsene sedurre. Amis corre ancora una volta questo rischio ed è impresa difficilissima perché oggi la neo-barbarie è l’aria che respiriamo, una seconda natura, è l’ideologia imperante in Nazioni che hanno perduto ogni impero, Nazioni che, sconfitte dalla propria storia (non da quella altrui), s’illudono di vivere dopo ogni ideologia proprio perché ne sono prigioniere.
Non a caso Amis elegge un delinquente psicotico fallito di successo a protagonista del proprio discorso sullo stato della Nazione (il sottotitolo del romanzo dichiara la sua ambizione). Lionel Asbo – acronimo per Antisocial Behaviour Order, una misura introdotta nel 1998 per contrastare i comportamenti antisociali – è la feccia della feccia, un bruto inetto perfino alla vita delinquenziale, uno che «va fiero della propria intenzionale stupidità», «un criminale di sussistenza che ha speso metà della sua vita in galera». L’educazione che Lionel cerca di impartire a Des, suo nipotino adolescente d’animo gentile la cui aspirazione sarebbe invece di farsi un’istruzione e una famiglia, si regge su tre pilastri: «metti in tasca un coltello», lascia perdere le donne e «vai a casa a guardarti un porno decente», ricordati di nutrire i pitbull con la salsa di tabasco per renderli più feroci.
La potente esistenza regressiva di Lionel, e i timidi tentativi evolutivi di Des, si svolgono sullo scenario di Diston, un sobborgo di una Londra reinventata. Diston - ispirato pare a Dalston, distretto del NordEst - è la perfetta distopia disfunzionale, tra le cui strade violente echeggiano, ma in un capovolgimento ironico, le utopie sociali dei pianificatori e urbanisti del dopoguerra. È la città dell’alta fecondità e delle vite inutilmente brevi, un luogo in cui gli abitanti trapassano da gravidanze precoci a decadi di declino. Diston è, dunque, lo scenario post-apocalittico di una società che ha perfino mancato l’appuntamento con la propria apocalisse, l’allegoria di un collasso di civiltà «con le sue alunne incinte delle scuole primarie e i suoi teppistelli sdentati, i suoi ventenni ansimanti, i suoi trentenni artritici, i quarantenni storpi, i cinquantenni dementi e i sessantenni inesistenti». Dopo averne evocato lo spettro, lo stregone Amis non nasconde la propria angoscia demografica di fronte a esso, la paura ancestrale che i nuovi barbari possano ereditare la terra: «Come andrà a finire», si chiede Des, «quando si risveglieranno tutti i morti cerebrali? Quando tutti i Lionel decideranno di farsi intelligenti?».
E il salto evolutivo all’indietro avviene nel corso del romanzo per mano di Amis, sceneggiatore sfrenato, che regala al suo antieroe un biglietto vincente. Nel secondo capitolo Lionel è raggiunto in galera dalla notizia di aver vinto la lotteria nazionale. Libero Lionel, il lettore verrà raggiunto dall’evidenza che Diston, sobborgo un tempo periferico, è oramai dappertutto. Il circo mediatico accoglie, infatti, con uno scrosciante applauso il nuovo Re leone, il nuovo Re gibbone, il maschio dominante di una società che ha smarrito se stessa perché ha smarrito ogni rapporto con il tempo grande della storia, che sa raccontare il proprio tempo soltanto declinandolo al presente e che, dunque, celebra il criminale, al pari del calciatore, della cocotte o del cantante: quando la storia cede il passo alla cronaca, quando la vita si cronicizza, il racconto del mondo si polarizza agli estremi del sesso e del sangue. La cronaca, lo abbiamo imparato, è sempre soltanto cronaca nera o cronaca rosa.
Lionel Asbo, ci suggerisce Amis, è l’eroe di questo mondo della distopia universale perché è la personificazione della plebe eterna acquartierata in una eterna suburra. Eterna non perché presente in ogni epoca storica ma perché assente da tutte. La feroce plebe urbana incarnata da Lionel grazie alla quale la Gran Bretagna conquistò l’impero - vive, infatti, da sempre e per sempre fuori dal tempo della storia. Lionel è la nuova-eterna animalità, la nuova-eterna barbarie, l’anti-sociale, «una sorta di anti-papà, il contro-padre», perché ignora ogni aspirazione al compimento, a superare il presente verso una fine che ne sia anche il fine, verso l’apice conclusivo e riepilogativo nel quale il protagonista del romanzo, assieme al suo lettore, voltandosi indietro, possa dire: «Dunque è andata così. Ecco la mia vita, la mia storia. La storia di tutti». Una fine che completasse, un fine che compisse, questo è stato il segreto tormento, l’aspirazione violenta, la paura e il desiderio degli uomini al tempo della storia. Ma quel tempo, sembra ammonirci Amis consacrando la sua prosa virtuosistica, la sua arguzia strabiliante, la sua totale padronanza della lingua al racconto di un vizioso, ottuso, semianalfabeta, quel tempo è alle nostre spalle.
E così il libro sullo stato della Nazione diventa anche un libro sullo stato dell’arte. Quell’arte del romanzo che si rivela orfana dei padri: al romanzo europeo si nega oggi l’eredità delle grandi aspirazioni moderne, coltivate nei secoli durante i quali fu il luogo privilegiato del rapporto con il tempo della storia. La parabola letteraria di Amis parrebbe dimostrarlo: raggiunse il suo culmine con la London Trilogy dandoci tre capolavori - Money (1984), Territori londinesi (1989) e L’informazione (1995) – che erano tre romanzi sul e del presente, incubi e al tempo stesso succubi di un mondo imprigionato nell’assoluto presente, ingabbiato nella bramosia affaristica, sedotto dalla vita criminale, avvelenato dall’invidia quale unico motore sociale di una umanità ossessionata dal successo mondano. Poi quella parabola entrò nella fase discendente quando Amis si ostinò a voler elaborare l’eredità del padre Kingsley e dei miti politici e sociali del XX secolo – il comunismo e la rivoluzione sessuale – scrivendo libri deludenti quali Koba il terribile (2002), La casa degli incontri (2006), La vedova incinta (2010).
Adesso Amis dai libri di storia ritorna ai tabloid. E questo fa sì che Lionel Asbo, piaccia o non piaccia, sia non solo il libro del mese, ma anche dell’anno, del decennio e, forse, del secolo. Lo è perché è un romanzo del giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo giorno. Di un Occidente europeo ridotto a sbarcare il lunario sotto un cielo notturno rischiarato sempre solo da una luna calante. «Chi ha lasciato entrare i cani?». L’epigrafe del romanzo vale anche per il suo Occidente.