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 2013  settembre 15 Domenica calendario

PIÙ COSTI E SMOG SE L’ITALIA PERDE QUEGLI ALTIFORNI


Nella vicenda dell’Ilva (e a questo punto anche di tutto il resto del gruppo Riva) il sistema economico italiano ha moltissimo da perdere: le attività del nostro campione nazionale della siderurgia sono enormi, se si guarda ai milioni di tonnellate di acciaio prodotto, al fatturato, all’export e all’occupazione. Ma non si tratta solo di questo: il problema è pure che le operazioni della Ilva/Riva sono fortemente integrate fra loro e intrecciate con molte altre attività industriali, anzi con troppe attività industriali perché ci si possa disinteressare delle loro sorte. Per quanto l’economia negli ultimi decenni abbia avuto la tendenza a smaterializzarsi e per quanto i prodotti industriali incorporino sempre più tecnologia e (se possibile) sempre meno materia bruta, alla fine l’acciaio si ritrova in un’infinità di prodotti. E l’Ilva/ Riva fonde qualità specifiche di acciaio che poi servono a fabbricare le auto, le componenti delle strutturali navali, le caldaie a vapore, i recipienti e le tubazioni, le condotte di acqua e metano, strutture e pale eoliche, le opere infrastrutturali e l’elenco potrebbe continuare.

Ovviamente se svanisce quella parte preponderante di siderurgia italiana rappresentata dal gruppo Riva ci saranno concorrenti pronti a subentrare: i tedeschi di ThyssenKrupp, i franco-indiani di ArcelorMittal, i cinesi che ormai producono ben più di metà dell’acciaio mondiale. Però, avverte Andrea Marinoni, partner di Roland Berger nel settore restructuring e corporate finance, «molte industrie meccaniche del Nord Italia vedendosi private di forniture importanti, sarebbero costrette a cercare l’acciaio più lontano, e allargare il raggio geografico delle forniture peggiorerebbe la loro competitività»; perché non si tratta di spendere qualche euro in più per muovere qualche tonnellata di materiale, le tonnellate da spostare sono milioni e milioni, con problemi anche di adeguatezza delle strutture di trasporto e di maggiore impatto ambientale. Il conto per l’Italia sarebbe in perdita da ogni punto di vista.

Oltretutto sarebbero colpite dall’aumento dei costi non solo le grandi aziende, più capaci di organizzarsi diversificando le fonti di approvvigionamento, ma anche le medie e le piccole, più vulnerabili.

Non dovrebbe esserci problema invece per la qualità dell’acciaio, perché i produttori, ovunque nel mondo (in Cina eccetera), devono far certificare quello che fondono. Però Marinoni segnala un altro fatto particolare: «Gli altiforni di Riva a Taranto, a pari di quelli di Lucchini a Piombino, sono risorse importanti, perché possono fondere il minerale grezzo. Invece gli altri impianti italiani sono ad arco elettrico e fondono solo il rottame di ferro. Ma tra gli effetti della recessione c’è anche la rarefazione dei prodotti da rottamare. Così il rottame di ferro non si trova oppure costa di più e questo fa aumentare il prezzo finale dell’acciaio così prodotto. Anche per questa ragione gli altiforni come quelli di Taranto sono elementi di forza» e perderli sarebbe doppiamente dannoso per il sistema economico italiano.

Sempre nella colonna delle perdite va segnalato che la parte preponderante della produzione siderurgica del gruppo Riva viene esportata, quindila bilancia italiana dei pagamenti sarebbe molto danneggiata dalla cessazione delle attività.

Infine va considerato quello che il Paese perderebbe in termini di investimenti: solo per ridurre l’impatto ambientale e solo nello stabilimento dell’Ilva di Taranto il gruppo Riva prevede di investire 1,8 miliardi in tre anni, e a questo vanno aggiunti gli investimenti più direttamente produttivi. E là dove vengono a mancare gli investimenti l’economia muore.