Federico Rampini, Affari&Finanza 16/9/2013, 16 settembre 2013
DOW JONES IL RE DEGLI INDICI È SEMPRE MENO “INDUSTRIALE”
È l’indice di Borsa più famoso del mondo, anche se non è il più rappresentativo. Perfino chi non ha mai investito un euro in azioni, conosce questo nome: Dow Jones. Lo sente ripetere quotidianamente sui giornali, nei tg, come fosse una sorta di barometro della situazione economica. Quel che spesso viene omesso e dimenticato, è il suo nome completo. L’indice si chiama, per esteso, Dow Jones Industrial Average. Tant’è che qui in America si usa anche il suo acronimo DJIA. E’ rimasto quindi nella sua ragione sociale un ricordo di quel che fu alle origini: un indice medio “industriale”. Così era, all’origine, perché il capitalismo americano per gran parte della sua storia fu sinonimo di grande industria. Perciò è significativo l’ultimo cambiamento nel paniere di 30 titoli che compongono questo indice. La modifica entrerà in vigore il 23 settembre, e porterà a includere nel Dow Jones altre due società finanziarie: la più importante banca d’affari di Wall Street, Goldman Sachs, e la più grossa società di carte di credito, la Visa. Per far posto a questi colossi finanziari usciranno due vere aziende industriali. Il Dow Jones dà l’addio a Hewlett-Packard (computer, stampanti, apparecchi fax e scanner) e Alcoa (alluminio). Dunque escono dall’indice di Borsa due aziende che ancora producono “cose”, e vengono sostituite da aziende che invece vivono di intermediazione, rendita finanziaria, speculazione. Alla faccia dell’indice “industriale”. Ma l’evoluzione del Dow Jones, anche se tradisce la sua ragione sociale originaria, non fa che rispecchiare quel che accade dentro il capitalismo. Dove l’industria si fa sempre più piccola, e viene sovrastata dalla finanza. Per allargare la visuale devo aggiungere che dal Dow Jones è uscita anche una banca (Bank of America) penalizzata dal calo del suo titolo che ha perso il 65% del suo valore rispetto al febbraio 2008, quando venne ammessa nell’indice. Tuttavia resta il fatto che dentro il Dow Jones ormai l’industria è finita in minoranza. L’ultima volta che ci fu un cambio del paniere, un anno fa, uscì la Kraft (agroalimentare) e venne sostituita da una compagnia assicurativa specializzata nelle polizze sanitarie, la UnitedHealth: in quel caso non si trattava di una banca, ma pur sempre di servizi finanziari in senso lato. Osservando la storia del Dow Jones, questa evoluzione è ancora più impressionante. L’indice fu creato nel 1896, è il più antico del mondo anche se è pieno di difetti. Tra le sue manchevolezze: il criterio per essere ammessi dipende dal prezzo del titolo anziché dalla capitalizzazione complessiva; inoltre per non squilibrare troppo un paniere fatto di soli 30 titoli vengono esclusi proprio i big come Apple e Google. Resta il fatto che alle origini il Dow Jones si meritava pienamente il suo nome: i grandi del capitalismo industriale come American Sugar, General Electric, American Smelting, Anaconda Copper, General Motors, AT&T, Procter & Gamble, ne furono a lungo le colonne portanti. Ora il Dow Jones è ben più rappresentativo di Wall Street che non dell’economia manifatturiera. I fondi comuni d’investimento e i risparmiatori gli preferiscono indici più larghi e rappresentativi come lo Standard&Poor’s 500. Tuttavia l’evoluzione del Dow Jones è la conferma di un trend di lungo periodo, che ha allontanato il capitalismo occidentale dalla vocazione manifatturiera, allargando a dismisura il peso degli intermediari finanziari. La crisi del 2008, che ebbe origine dalle banche, ha avuto un risultato paradossale: a pagarne il prezzo più alto è stato proprio il settore industriale, i suoi lavoratori e le sue aziende, mentre la finanza è quella che ha goduto di maggiori aiuti dagli Stati e dalle banche centrali.