Federico Fubini, Affari&Finanza 16/9/2013, 16 settembre 2013
VIGILANZA EUROPEA LA PARTITA DI DRAGHI
Il momento di partenza è già fissato: inizio gennaio del prossimo anno. Si tratterà probabilmente della partita economico-finanziaria più delicata e rilevante per le prospettive di ripresa in Italia del 2014, anche se per adesso non ha molto attratto l’attenzione del mondo politico. Per una volta, non è tutta colpa dei partiti e dell’instabilità di governo. Il processo che dovrà portare verso l’unione bancaria, con un solo regolatore europeo incaricato della vigilanza bancaria su 130 banche dell’area monetaria, è fra i più complessi e incerti che l’intera storia dell’euro ricordi.
Per molti aspetti, è una zattera che salpa per una traversata oceanica senza la certezza di avere una mappa ben chiara del percorso e i viveri necessari per arrivare a destinazione. Il punto d’arrivo, almeno in teoria, dovrebbe essere chiaro. L’unione bancaria fu decisa in linea di principio al vertice europeo del giugno 2012, nel pieno delle tensioni finanziarie, per centrare una serie di obiettivi. Il primo era dare la garanzia a tutti che le banche di importanza sistemica fossero vigilate da un’autorità abbastanza così forte e indipendente da non essere «catturate» dagli istituti che dovrebbe regolare. Gli esempi di quella che gli addetti chiamano «cattura regolatoria», cioè il dominio delle banche sulle loro autorità di vigilanza, in effetti non sono mancati in questa crisi. Nel 2010 per esempio emerse che la Bafin, il regolatore bancario della Germania, aveva permesso che gli istituti tedeschi costruissero un’esposizione finanziaria sull’Irlanda di proporzioni decisamente imprudenti: 140 miliardi, circa il 100% del Pil irlandese; solo il salvataggio di Dublino con i fondi dell’Europa e del Fondo monetario permise alle banche tedesche di uscire indenni malgrado la distrazione del loro regolatore. Ma l’unione bancaria ha anche un’altra funzione, emersa con chiarezza in una crisi che ha minacciato la tenuta della moneta unica: spezzare il legame pericoloso fra tenuta delle banche e del debito pubblico dei paesi nei quali esse sono basate. Proprio il caso irlandese è forse l’esempio più lampante del circolo vizioso potenziale fra la fragilità degli Stati e quella degli istituti di credito. Il governo di Dublino garantì tutti i depositi del paese, ma divenne presto chiaro che i bilanci bancari nell’isola celtica erano talmente superiori alle entrate del governo e allo stesso prodotto nazionale, che lo Stato sarebbe fallito se avesse cercato di salvare il sistema finanziario. Di qui l’esigenza del salvataggio europeo.
Per evitare il panico dei correntisti, nel timore che un governo nazionale non riesca ad assicurare i depositi, molti Paesi puntano dunque ad avere un’assicurazione europea sui depositi. Questa però sarà molto probabilmente solo l’ultima tappa. Prima devono essere eretti gli altri due pilastri dell’unione bancaria: un sistema comune di «risoluzione» (ossia di liquidazione) degli istituti che sono al fallimento e un sistema unico di vigilanza. Il sistema di «risoluzione », le cui regole sono già state messe a punto, prevede una precisa gerarchia di investitori che dovrebbero assorbire le eventuali perdite gli uni dopo gli altri: i primi ad essere colpiti in un fallimento sarebbero gli azionisti, poi gli obbligazionisti subordinati e «junior», quindi gli obbligazionisti privilegiati e infine i depositanti per le quote eccedenti i 100.000 euro. Solo dopo che queste fonti di finanziamento di una banca in liquidazione saranno state utilizzate, sarà possibile regolare dei pagamenti residui con le risorse pubbliche comuni dello European Stability Mechanism.
Ma in questa fase è il pilastro del passaggio alla vigilanza europea, con il Consiglio unico di supervisione, a rappresentare la posta in gioco più delicata. L’organismo si sta formando in queste settimane e da subito lo aspetta un negoziato che si presenta in salita: come eseguire sulle banche quella che gli addetti ai lavori chiamano la asset quality review, o esame della qualità degli attivi. Si tratta di un esercizio, se condotto con imperizia o all’insegna delle divisioni fra paesi, che rischia di determinare un credit crunch ancora più acuto in certe economie e un ritorno della recessione.
È per questo che molto del futuro prossimo in questo momento si gioca nel Consiglio unico di supervisione, l’apice del nuovo sistema di vigilanza. Si tratta di un organo della Banca centrale europea, composto di regolatori di tutti i paesi dell’area monetaria, il cui primo compito darà già luogo a discussioni difficili: deve decidere i criteri in base ai quali esaminare le banche e le misure che esse dovranno prendere se l’esame dei loro attivi farà emergere delle debolezze. Per la Bce infatti sta diventando essenziale prendere sotto la propria vigilanza banche di cui conosce perfettamente le condizioni e che abbiano capitale a sufficienza per funzionare e resistere agli choc.
Proprio questo esame, la asset quality review, è il processo che inizia a inizio gennaio prossimo, per concludersi con ogni probabilità a giugno. Al vaglio passeranno 130 banche europee, di cui le prime 13 italiane per dimensioni di bilancio, da Unicredit e Intesa Sanpaolo fino a istituti più piccoli come il Credito Valtellinese. I criteri dell’esame riguarderanno quattro aree: i livelli di capitale e l’eventuale esigenza di rafforzarlo; la classificazione delle sofferenze bancarie e degli incagli; l’esposizione delle banche al rischio di ipotetico default del governo del paese dove si trovano, da momento che possono aver investito molto in titoli di Stato; e la gestione delle attività poste in veicoli fuori bilancio.
A condurre l’esame dovrebbero essere squadre miste di regolatori di vari paesi. E per alcune banche italiane il rischio è che emergano vulnerabilità su due fronti: le sofferenze e gli incagli, molto saliti nella recessione, e l’esposizione ai titoli del Tesoro che negli ultimi due anni è quasi raddoppiata a circa 400 miliardi. Qualora il Consiglio di supervisione dovesse decidere che questi rischi vanno compensati con un rafforzamento dei requisiti di capitale, le banche a cui fosse richiesto potrebbero dover vendere attività, restringere il credito, emettere nuove azioni o - se non riuscissero a ricapitalizzarsi sul mercato - dovrebbero far ricorso ad aiuti di Stato. Ma Bruxelles e Francoforte, in base a quanto emerge, potrebbero esigere che gli investitori perdano parte dei loro soldi (il cosiddetto bail-in) prima che la banca possa usare fondi dei contribuenti.
Si tratta dunque di un passaggio delicato, benché sulla carta non siano certo molte le banche italiane che rischiano di evidenziare un eccesso di sofferenze. Ma è molto probabile che nel Consiglio unico di supervisione sarà battaglia. Se gli istituti da questa parte delle Alpi sono in teoria vulnerabili per la loro esposizione ai titoli di Stato, alcuni di quelli tedeschi lo sono invece per aver preso alcuni rischi spostandoli in veicoli ad hocfuori bilancio. La Bafin ha permesso loro di tenere portafogli di titoli rischiosi, comprati indebitandosi, appunto in quelli che i tecnici chiamano conduit, vere e proprie società finanziarie da loro controllate ma non consolidate nei bilanci. Questi «veicoli» hanno già portato di fatto all’insolvenza nel 2009 e 2010 banche tedesche come Euro Hypo o Depfa. Adesso il Consiglio unico della vigilanza europea controllerà anche queste strutture e, se necessario, imporrà degli interventi.
L’intero processo può dunque finire in uno dei due modi o in un compromesso fra entrambi. O ciascuno dei paesi cercherà di evidenziare e correggere con durezza le debolezze degli altri, oppure emergerà un tacito accordo per non danneggiarsi a vicenda. La terza opzione, ovviamente, sarà una via di mezzo che permetta all’Europa di trascinarsi in avanti senza fare troppa chiarezza sui suoi problemi finanziari. Ma anche senza altri choc.