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 2013  settembre 16 Lunedì calendario

IL SIGNOR GOL


Potevano succedere tante cose, una volta: che si vincesse un mondiale, che si esordisse in A men che diciassettenni, che si stesse in campo fino ai 41 e non si vincesse uno straccio di scudetto. Che si segnassero 290 gol, un record, in 565 partite nel massimo campionato, e 30 in 34 partite azzurre, e che dietro a quel record stia correndo solo Totti. Ultimo gol in un Novara-Milan finito in parità il 7 febbraio del ‘54. In campo c’era anche Liedholm: «Era fortissimo di testa e coi piedi, alla sua età aveva ancora un fisico poderoso e faceva ammattire gli avversari. Aveva sempre addosso due difensori. Eppure riuscì a segnare con una delle sue famose rovesciate a bicicletta. Me lo ricordo bravo anche come maestro, a Coverciano, quando all’inizio degli anni ‘60 spiegava la tecnica a noi allenatori».
La storia di Piola si potrebbe raccontare solo coi numeri, ma che storia sarebbe? Già in vita lo chiamavano Silvio gol. Da giovane, Aquilotto, per via del naso. Non è la solita storia di poveri che si riscattano. La famiglia Piola era abbastanza agiata, il padre commerciava in tessuti, girava i mercati di Piemonte e Lombardia, ed è in provincia di Pavia, a Robbio Lomellina, che nasce Piola cent’anni fa, ma fin da bambino la sua città sarà Vercelli, come dire la Pro, le gloriose casacche bianche, i leoni. Infatti al bar Beccuti, quello degli sportivi, l’insulto peggiore era cavàl.
«Mio fratello Serafino era più bravo di me, ma ha preferito studiare», diceva Piola. Sei gol in una partita li ha segnati lui, e poi Sivori, ma lui alla Fiorentina, non ai ragazzini dell’Inter. Ha sempre segnato Piola, spesso in acrobazia, ma all’inizio il suo modo di giocare, spesso spalle alla porta, era criticato. «Mette in difficoltà i compagni preferendo il gioco alto». Quando si scendeva in campo con la retina in testa per non sciupare i capelli pettinati alla Rodolfo Valentino, molti allenatori erano di scuola danubiana. A lanciare Piola nel ruolo che preferiva, centravanti, fu Jozsef Nagy, ungherese dai modi aristocratici (pare fosse davvero un conte). A una delle prime uscite il ragazzo Piola fu avvicinato da Pasolini, difensore del Brescia, che indicò la linea dell’area di rigore. «Ohè, beccaccino, la vedi questa linea? Se la oltrepassi, ti rompo le gambe». Piola va da Ardissone, il suo capitano, e riferisce, chiamandolo rispettosamente Signor Mario. «Se tu non la oltrepassi, le gambe te le rompo io» è la risposta.
Piola ha forza fisica da vendere, ma non è scarso di piede. Ha imparato a destreggiarsi con le palle di stracci dribblando le bancarelle del mercato di piazza Cavour, allenandosi al tiro contro i muri di cinta della caserma di Porta Milano. Di poco sotto l’1.80 di statura, colpiva la lunghezza delle sue gambe (106 cm), per cui sono stati fatti paragoni con un altro grande atleta piemontese, Fausto Coppi, di cui era amico. Anche di Bartali, ma si trovava meglio con un tipo taciturno come Coppi. In comune la passione per la caccia. Quando andò a Roma, sponda Lazio, ci rimase male. Sperava di finire all’Ambrosiana, lo voleva Meazza, o al Milan, o anche sotto la Mole, ma vicino a casa. La Lazio però lavora bene sotto il profilo diplomatico: un suo dirigente, Olindo Bitetti, convince Piola padre, ma più convincenti sono le pressioni sulla Pro Vercelli di Marinelli, segretario ammistrativo del Pnf e del generale Vaccaro, presidente federale, entrambi laziali. La Pro incassa 300mila lire, per Piola un ingaggio di 10mila annue più 5mila mensili. Sono bei soldi.
Piola parte per Roma portandosi appresso Frem, il cane da caccia. Alcuni arrivano tardi all’allenamento per via del tabarin, ma se Piola arriva in ritardo è per via della selvaggina. Ormai sa di essere un pezzo pregiato, ma non lo fa pesare. «Non ha mai accusato un compagno ed è sempre il primo a difenderlo», ricorderà il portiere Uber Gradella. «Non l’ho mai sentito dire io, ma sempre noi». Ha il senso del gol: è anche il titolo di un libro con bellissime foto inedite uscito nel 2006, scritto da Lorenzo Proverbio con la collaborazione di Paola Piola, psicologa, figlia di Silvio. È lei che ha ricevuto dalle mani del presidente Abete, prima di Italia-Cekia a Torino, la maglia azzurra col numero 9 e il nome stampato.
Ai tempi di Piola non c’erano i numeri sulle maglie né tantomeno i nomi. E anche le scarpe costituivano un problema, disse Piola: «Erano dure come zoccoli di legno, una sofferenza enorme per i piedi. Dovevano ammorbidirsi, prendere la forma. I titolari avevano il grande privilegio di scegliersi il ragazzo della giovanile cui affidare il rodaggio delle scarpe nuove. Quand’erano morbide tornavano al proprietario. Quante volte ho fatto da cavia per i vecchi. Il mio nuovo status di calciatore si espresse con la possibilità di affidare a un ragazzo le mie scarpe. Una vera conquista ».
Un giorno Brera scrisse che Riva, in certi movimenti, gli ricordava Piola. Riva lesse e commentò: «Mi resi conto che forse come calciatore valevo qualcosa ». Piola lesse e commentò: «Vero, io però calciavo allo stesso modo di destro e di sinistro». E anche di mano, in un’amichevole con l’Inghilterra a San Siro, il 13 maggio 1939, con 47 anni d’anticipo su Maradona. A parte questa furbata istintiva, di cui pochissimi s’accorsero allo stadio, chi l’ha visto giocare ha sempre usato le parole coraggio, lealtà, potenza, acrobazia. I tifosi laziali più anziani ricordano un derby molto tirato agonisticamente, quello del 16 marzo ‘41. Toccato duro da Acerbi, Piola perde sangue da una ferita alla fronte, gliela ricuciono in spogliatoio e torna in campo per incornare un cross di Zironi, a 2’ dall’intervallo. Ricucito, non dà retta al dottor Bani che gli consiglia di non rientrare. Rientra, si piazza da ala sinistra con la maglia sporca di sangue (non erano previsti cambi di maglia, ma nemmeno c’era l’Aids), e batte Masetti con un sinistro dal limite su passaggio dell’imprendibile Vettraino. Applaudono anche i romanisti. Una mano ignota aggiunge una “i” e via Pola diventa via Piola.
In Italia si oscilla tra sistema e metodo. Alcuni tecnici vedono meglio Piola da trequartista o da esterno, ma è da punta vera che dà il massimo. Vittorio Pozzo se ne accorge quasi subito e Piola sarà fondamentale nella vittoria mondiale del ‘38: due gol nella finalissima con l’Ungheria, ma uno ancora più utile nei supplementari con la Norvegia, all’esordio, partita che si rivelò ben più difficile di quella col Brasile.
Che a Parigi, superata la Norvegia, gli azzurri stemperassero la tensione (allora non esisteva nemmeno la parola stress) in un casa ospitale è risaputo, e del resto lo scrisse anche Piola nel diario che tenne durante la manifestazione. Come scrisse la storia del fucile. Ne aveva visto uno, bellissimo, naturalmente da caccia, in una vetrina, e aveva chiesto un prestito al presidente Vaccaro. Se domani battete l’Ungheria te lo regalo io, disse Vaccaro. Allora è come fosse già mio, disse Piola. Che pure nelle prime tre partite aveva perso sei chili, ma non ci faceva caso. Era abituato a non togliersi le scarpe quando gli scalciavano le caviglie, perché sapeva che non sarebbe riuscito a infilarsele nuovamente, col piede gonfio. Doloretti. Robette, diceva lui.
Quanto all’uso dei gomiti, etichettato da Brera come più che legittima difesa, va ricordato che i difensori non andavano tanto per il sottile e che l’infortunato giocava zoppo all’ala o usciva lasciando i compagni in dieci, non erano previste sostituzioni. Piola ne dava e ne prendeva, come Riva più tardi, il paragone sta in piedi, ma non si prendeva la ribalta. «Con due mezze ali come Meazza e Ferrari segnare è un dovere e un piacere », disse. L’avrebbe detto più tardi, a Torino, quando le mezze ali erano Loik e Mazzola. Scrisse Bruno Roghi: «Piola supplisce al grano di finezza che gli manca, per essere un virtuoso della palla, con una robustezza eccezionale di gioco, con un tiro frequente e secco e soprattutto con l’istinto che gli suggerisce i gol più impensati e difficili».
In altri termini, era uno che sapeva come buttarla dentro. E alle ali, mi disse un giorno Pesaola a Napoli (un giorno, ma era quasi l’alba) Piola non chiedeva cross rasoterra ma a mezza altezza: di testa o di piede, ci sarebbe arrivato. Pesaola al Novara in B (insieme l’avrebbero riportato in A) lo aveva voluto proprio Piola, che sapeva come difendere in campo il compagno piccoletto. «Vieni qui al centro, Petisso, io mi sposto lì e sistemo le cose». E le sistemava, perché non aveva paura di nulla, di nessuno. Tant’è che segnava molto in trasferta, come a Parigi, come a Praga, come a Oslo, come a Ginevra, come a Budapest, come a Belgrado, come a Vienna: 2-0 nel marzo ‘35, prima squadra italiana a vincere al Prater. Nemmeno ebbe paura, durante la guerra, quando sua madre gli disse che un ufficiale tedesco era già passato due volte a chiedere di lui, che era fuori (a pesca, o a caccia). Quando sentì passi di stivali su per le scale andò ad aprire, guardò l’uomo in divisa, che sorrise e poi si abbracciarono. Era Platzer, portiere della Nazionale austriaca. «Questo è lo sport, il bello dello sport», diceva tanti anni dopo, raccontando l’episodio. Il bello di Piola è che amava l’ombra protettiva della famiglia, da allenatore solo due esperienze (non felici) a Cagliari. A Vercelli era cresciuto, a Vercelli invecchiò serenamente. Michele, uno dei nipoti, ricorda che nonno Silvio nel luglio del ‘96 gli spiegava come effettuare lo stop di esterno collo. «Perché la tecnica conta». Poi, una forma molto aggressiva di Alzheimer. Morì il 4 ottobre. Gli stadi Vercelli e di Novara portano il suo nome.