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 2013  settembre 15 Domenica calendario

ROSELLINA ARCHINTO


È curioso che nel piccolo studio con vista su una Milano insolita e poco cartolinesca, al settimo piano di un sobrio ed elegante palazzo, tra i libri, le carte, gli oggetti, si staglino alcune grandi foto di Gary Cooper, e una del nostro Marcello Mastroianni. Sembra la stanza di un agente cinematografico, dico scherzoso. E Rosellina Archinto si fa un gran risata: «No, è solo che adoro, o meglio ho adorato, il cinema. E certi attori ne sono la più straordinaria riuscita. La loro bellezza mi folgora. Hanno qualcosa di superbo che riempie i miei occhi». Mentre parla, noto il manifesto di uno stralunato Gérard Philipe con sotto la scritta: «Mieux qu’un cadeau, un livre», e improvvisamente sembra di essere tornati a un ambiente più consono, in linea con le ragioni di questo incontro.
Lei cosa regala di solito?
«Naturalmente libri. Penso siano gli oggetti più intelligenti, più divertenti, più affascinanti che la nostra civiltà ci abbia dato. Sono i soli manufatti di massa che io conosca, con un’anima che si adatta a ciascuno di noi. Non riuscirei a immaginare un mondo senza libri e senza gente che come primo gesto non pensi a regalarne almeno uno. E sa perché?».
Provi a dirlo.
«Perché il libro è uno dei rari legami autentici che ancora ci restano in questo mondo che sta andando per aria. Quando pubblicai 84, Charing Cross Road, da cui fu in seguito tratto un bellissimo film, mi fu immediatamente chiaro questo aspetto: una scrittrice, Helene Hanff, e un libraio, separati dall’oceano e dalla guerra, si scambiano una corrispondenza sui libri e stringono attraverso di essi un’amicizia. Competenza, stima, curiosità, amore. Non sono questi i tratti che un libro esalta? Fin da piccola ho avuto la fortuna di amare i libri».
Dove è nata?
«A Genova. Anche se in quella città sono rimasta poco, conservo forti le mie radici liguri. A volte, quando avverto il bisogno di liberare la testa, prendo la macchina e vado su quei tratti di mare che hanno segnato la mia vita, i miei rapporti, le mie amicizie. Mi lascio invadere da un presente amico più che da un passato impossibile».
E dopo Genova?
«A Milano, dove ho fatto l’università laureandomi in Economia e commercio. La scelta poteva sembrare abbastanza stravagante. Soprattutto perché era la Cattolica di Milano. Al mio corso di laurea c’erano soltanto altre due donne. Per dire la disparità allora imperante. In facoltà insegnavano personaggi come Amintore Fanfani e Pasquale Saraceno. Io mi laureai nel 1957 con una tesi sul mercato del lavoro con Beniamino Andreatta. Che già allora manifestava il suo talento. Peccato che sia uscito di scena troppo presto. Con lui, e altri come lui, avremmo avuto un paese molto diverso».
Insomma si laurea, ma poi va a fare tutt’altro. È così?
«Mi laureo in linea con le richieste di mio padre. Ma non è che volessi fare l’economista».
E suo padre come reagì?
«Alla fine bene. Era un uomo pragmatico, gestiva aziende e, soprattutto, aveva fatto la sua carriera venendo su dal niente. Conosceva, lui che proveniva da una famiglia non agiata, il valore della scelta e della possibilità di farcela da soli. Io mollai il sentiero dell’economia e mi indirizzai su quello che fin dall’inizio mi sembrava la cosa più naturale: il mondo dei libri. Cominciai a collaborare con Giò Ponti. Poi arrivò il matrimonio e con mio marito ci trasferimmo per un anno a New York».
Che periodo era?
«Gli anni erano il 1959 e ’60. I più belli della mia vita. Frequentai dei corsi alla Columbia University di psicopedagogia e capii due cose. La prima che c’era una grande creatività nella letteratura per l’infanzia; la seconda che gli Stati Uniti erano all’avanguardia nella pubblicazione dei libri per bambini».
In che senso più all’avanguardia?
«Da noi si pubblicavano libri bruttini, tristanzuoli, molto moralistici. C’era per lo più un’idea oppressiva dell’infanzia. Sembrava che il libro dovesse punire il bambino e non aiutarlo alla crescita. Nel 1963 feci le prime prove editoriali e nel 1966 fondai la Emme edizioni».
Emme perché?
«Era l’iniziale del mio cognome: Marconi. Cominciai a lavorare con artisti come Leo Lionni, Maurice Sendak, Bruno Munari, Lele Luzzati e a scommettere su alcuni scrittori. La storia della casa editrice, che ha compiuto cinquant’anni, la porteremo in giro con una serie di mostre per l’Italia. La prima si è già tenuta a Bologna».
La casa editrice, a detta di molti, era bella e sofisticata. Perché la mollò?
«Facevamo libri bellissimi, ma in anticipo sui tempi. A un certo punto non ce la facemmo più a sostenere il peso economico. Cedetti la casa editrice a un pazzo furioso che mi pagò con un assegno fasullo. A quel punto chiedemmo il fallimento. Fu un disastro. Nel caos che si creò andò perduto o distrutto anche l’archivio con tutte le lettere di Calvino, Citati, Arbasino, Soldati che avevano collaborato con me per la collana “grandi scrittori”».
Che idea ha del grande scrittore?
«È una persona inarrivabile. Nei cui confronti ho sviluppato un senso di inferiorità. Ricordo che la prima volta che vidi Vittorini fui colta da un’ansia spaventosa. Non riuscivo a spiccicare parola».
È strano per un carattere forte come il suo.
«Ciascuno ha i propri punti deboli. Io ho sempre letto moltissimo, ma non saprei scrivere quattro righe. Una totale incapacità alla scrittura, alla bella prosa. Per questo resto ipnotizzata davanti allo scrittore».
Non le crea una qualche frustrazione?
«No. Mi consolo pensando che scrivere sia diventata un’attività estesa e forsennata. Perfino farsesca. Investe tutti senza distinzione sociale o di merito. Preferisco leggerli i libri e capire quando sono belli».
E come fa?
«Boh, istinto direi. Forse esperienza. Spesso mi piace pubblicare ciò che non conosco e che mi sorprende».
Dopo Emme arriva l’Archinto.
«La fondai alla metà degli anni Ottanta. Mi dissi: niente romanzi. Solo lettere e saggistica. Mi piacciono i libri con dentro del vissuto. Senza ufficialità. Ricordo che quando pubblicai le lettere di Freud ai figli pensai con stupore alla sua figura. Allo studioso distante e antipatico si sostituì l’uomo con tutti i suoi problemi e apprensioni. Percepii il suo lato umano. Un altro esempio è Elias Canetti. Dalle lettere con la moglie Veza e il fratello Georges, salta fuori un personaggio più accessibile e in qualche modo disinvolto».
È importante la disinvoltura intellettuale?
«Credo di sì, a patto che non diventi frivolezza. Può essere un mio limite. Ma non amo la fatuità e l’inconsistenza. Quelli che dentro non hanno niente mi spaventano, sono i più pericolosi. Puoi combattere con tutti tranne contro gli stupidi».
Ce ne sono parecchi?
«Come si dice? La mamma dei cretini è sempre incinta. Ho dovuto spesso lottare contro i pregiudizi. Mi dicevano: ma cosa è questa smania di fare la donna in carriera, occupati piuttosto dei tuoi cinque figli, dedicati alla loro educazione. Non venivo presa sul serio».
E lei?
«Ero in grado di fare entrambe le cose: lavorare e badare alla famiglia. E soprattutto reagivo al clima di intimidazione morale che è durato parecchi anni nei riguardi di noi donne».
Mi scusi, ma lei la sua brava carriera se l’è fatta.
«Mi sono costruita a forza di lottare. Proteggendo i miei spazi di libertà. Sia dicendo sempre ciò che penso, sia difendendo ciò che ritenevo giusto fare. Ho vissuto per quasi quarant’anni con un signore che non ha mai cercato di prevaricarmi. E questa è stata la condizione perché il nostro rapporto potesse funzionare meravigliosamente».
Sta alludendo alla sua storia con Leopoldo Pirelli?
«Sì, un’avventura che è durata una vita. Ho continuato per la mia strada e non mi hanno risparmiato critiche, insinuazioni, antipatie».
Perché era la compagna di un uomo potente?
«In un certo senso, è così. Ed è il motivo per cui rivendicavo la mia autonomia: case separate, poche amicizie comuni e una grande comprensione reciproca. E lui ha sempre accettato queste mie scelte».
Che uomo era?
«Appartato, solido, in una parola: schivo».
E come imprenditore?
«Non spetta a me dare dei giudizi. E potendo scegliere non so se avrebbe fatto l’industriale. Credo che la sua passione vera fosse l’architettura. Ma il suo compito lo svolse con sacrificio, senza scatti, è vero, ma anche senza smanie di protagonismo industriale. Si tenne lontano dal potere politico ed è stato tra i pochi imprenditori non inquisiti».
Lei è una borghese, Pirelli fu quello che si diceva un borghese illuminato. Che ne è di questa classe oggi?
«Siamo dei sopravvissuti. Le grandi famiglie sono quasi del tutto sparite. E non so dirle se sia stata una fortuna. Ho visto crescere il potere dei manager. Dilatare la finanza e aumentare a dismisura i poveri. Qualcuno giudicherà ingenerosa questa mia riflessione. Diranno: sputa nel piatto dove mangia. Ma era questo che volevamo? Me lo chiedo con tutto il carico di tristezza che una vecchia signora come me oggi è in grado di sopportare».
Una “vecchia signora” al vertice di una tribù fatta di cinque figli e una decina di nipoti.
«Finora ho tenuto insieme questo gruppo. Dopo non so cosa accadrà. Dico sempre: l’unione fa la forza, ricordatevelo. Nella mia vita è sempre stato così. E se penso a queste giovani generazioni mi spavento all’idea che vivranno in un mondo più virtuale che reale e dove l’allegria è stata soppiantata dalla noia. Detesto annoiarmi».
E quando le capita?
«Scappo al mare o mi rituffo nel mio lavoro. Non ho hobby. Non gioco a golf, né a bridge, odio fare shopping. Mi resta il lavoro e la mia casa, sempre aperta agli amici. Da giovane ho fatto di tutto. E ora che sono entrata nella mia ultima stagione non penso che debba viverla come una tragedia. La vecchiaia non è una nemica. Ho avuto una vita fortunata: un marito carino, dei figli ottimi, un compagno fantastico e un lavoro che mi è sempre piaciuto. A cos’altro avrei dovuto aspirare?».
Magari ai tempi supplementari.
«Li giocherei con tutti gli amici della mia vita. Ma non è così. Non può accadere. Il legame con il passato è spesso una ghirlanda di fiori appassiti. Al cui pensiero inorridisco. C’è gente che trascorre la propria vita a guardarsi continuamente indietro. Ho amiche che rimpiangono la loro antica bellezza, che si disperano per il tempo che passa e che ci offende. Io dico che il passato porta solo tristezza. Va ricordato, certo. Ma senza nostalgia. Senza panzane psicologiche. Bisogna riuscire ad accettarsi. Io mi sono sempre accettata. Tanto più adesso che i giochi sono fatti. La vecchiaia, diceva il pittore Matta, è meglio di niente».