Federico Rampini, la Repubblica 15/9/2013, 15 settembre 2013
IL GRANDE CRAC LEHMAN NON HA INSEGNATO NULLA
CHE fine ha fatto Richard Fuld? Sta bene, grazie.
The Gorilla, così lo chiamavano per la sua aggressività. Dopo essere stato un simbolo dell’arroganza di Wall Street, cinque anni fa il chief executive di Lehman Brothers fu costretto a dichiarare bancarotta. Lunedì 15 settembre 2008 resta «una data segnata dall’infamia», come Roosevelt definì Pearl Harbor. Davvero una Pearl Harbor economica: cinque anni fa si mise in moto la concatenazione di catastrofi che hanno sprofondato l’America e l’Europa nella più grave crisi dopo la Grande Depressione.
SE QUALCUNO pensa che Fuld abbia pagato personalmente, deve ricredersi. L’ex numero uno di Lehman continua a fare affari a Wall Street. A capo della sua società Matrix Advisors, guadagna laute commissioni dando agli investitori i suoi consigli sulle strategie per arricchirsi, e perfino sulla «gestione del rischio». Le scene dei dipendenti di Lehman che cinque anni fa uscivano mestamente dal palazzo della banca, con gli scatoloni di cartone in cui avevano messo in fretta e furia gli effetti personali, illustrano il destino dei bancari, non dei banchieri. In decine di migliaia persero il posto a Wall Street, ma i capi anche quando hanno dovuto lasciare il posto hanno avuto trattamenti di riguardo: super-liquidazioni coi «paracaduti d’oro» multi-milionari. C’è perfino chi ha guadagnato tanto dai crac finanziari. John Paulson, capo di uno hedge fund, ha comprato degli attivi di Lehman durante la procedura fallimentare, dai quali ha già ricavato un miliardo di dollari di profitti.
Non è andata così per la stragrande maggioranza degli americani.
Un rapporto del Dipartimento del Tesoro, fa il bilancio definitivo di quella crisi: 8,8 milioni di posti di lavoro perduti, 19.200 miliardi di dollari di ricchezza delle famiglie distrutta. Un sondaggio Gallup dà la misura del trauma anche psicologico: la maggioranza degli americani sono convinti che un’Apocalisse finanziaria di quelle dimensioni può ripetersi e distruggere i loro risparmi prima che loro raggiungano l’età della pensione. Il magazine Time celebra il quinto anniversario con una copertina terribile: il Toro della Borsa è in festa, il titolo dice «Come Wall Street ha vinto», il sottotitolo è «cinque anni dopo il crac, tutto potrebbe succedere un’altra volta». Perfino il Wall Street Journal, giornale conservatore, dedica la sua attenzione ai perdenti. In prima pagina c’è una grande inchiesta sulla Lost Generation. Non solo in Europa, anche in America i ventenni sono una Generazione Perduta. Malgrado il tasso di disoccupazione giovanile sia solo un terzo o la metà rispetto ai paesi più colpiti dell’eurozona come Spagna Grecia e Italia, il Wall Street Journal osserva che i ventenni americani con un lavoro sono spesso confinati su «un binario di serie B, senza prospettive di carriera, e vedono sfumare per sempre la possibilità di avvicinarsi in futuro ai livelli di benessere dei genitori».
Un’intera generazione, rivela l’inchiesta, «sta rinunciando o rinviando sine die tutti i riti dell’età adulta: il matrimonio, l’acquisto della casa, la nascita di un figlio».
Per capire la copertina di Time, «come Wall Street ha vinto», bisogna risalire proprio al crac Lehman. Che sprofondò l’establishment in un terrore da «contagio sistemico». E fu seguito da una svolta repentina. Lo stesso ministro del Tesoro Hank Paulson (Amministrazione Bush) che aveva lasciato fallire la banca di Fuld, 24 ore dopo decise un salvataggio da 85 miliardi di dollari per il colosso assicurativo Aig. Nasceva così la dottrina «too big to fail»: ci sono colossi finanziari troppo grandi perché li si possa lasciare fallire (con il corollario del «too big to jail», nessun megabanchiere è finito in carcere). 600 miliardi finirono nel fondo Tarp per i salvataggi bancari. L’aspetto più pernicioso del «too big to fail», è l’incentivo implicito che offre ai banchieri perché ricomincino ad assumere rischi eccessivi. Tanto, se finisce male sarà il contribuente a pagare il conto.
Dopo il Tarp, ebbe inizio l’èra segnata da uno straordinario protagonismo delle banche centrali, con l’esperimento estremo di politica monetaria condotto dalla regina fra loro: la Federal Reserve americana. Un esperimento fatto di massicci acquisti di bond sui mercati, per azzerare il costo del credito e inondare di liquidità l’economia. I rialzi poderosi delle Borse mondiali, Wall Street in testa, sono strettamente legati a questa terapia d’urto.
Che potrebbe finire questo mercoledì, con l’atteso annuncio del ridimensionamento graduale degli acquisti della Fed. Quell’annuncio sancirebbe la conclusione ufficiale di un quinquennio drammatico. Ma riaprirà la battaglia sulle lezioni che bisogna imparare dalla crisi. L’appuntamento cruciale è la nomina del successore di Ben Bernanke alla guida della Fed. Le polemiche furiose — e inusuali — sui due candidati di Barack Obama, vanno al cuore del dibattito sulla crisi. Chi si oppone a Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, lo fa perché ricorda il suo ruolo nella deregulation finanziaria. Chi appoggia Janet Yellen non è mosso solo da «femminismo », ma vuole una donna che ha mostrato di non essere complice né succube dei grandi vincitori di questo quinquennio: i banchieri.