p. col., la Repubblica 14/9/2013, 14 settembre 2013
BOCCASSINI CHIEDE UN’AUTOCRITICA ALLE TOGHE “CERTI PM USANO LA GIUSTIZIA PER ALTRI SCOPI”
Dibattito affollato per un libro contro-corrente. E con un’Ilda Boccassini che fa salutare con un applauso l’ex collega Gherardo Colombo, nascosto tra il pubblico, ma ripete, con qualche elaborazione in più quel concetto che, appena dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone, li divise. E divise la magistratura: «Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent’anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un’autocritica o una riflessione». Perché, aveva detto poco prima, «si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro» per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica.
Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al «consenso sociale», cosa sbagliatissima, una «patologia», sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. «Io — racconta Boccassini, che dopo trent’anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda — durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel “bunkerizzati”, con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, “Forza mani pulite”». E non le piaceva, anzi «ho provato una cosa terribile» quando la folla scandiva i nomi dei magi-strati, perché a muoverli «non dev’essere l’approvazione».
E’ stato presentato ieri a Milano «L’onere della Toga», di Lionello Mancini (Bur, 11 euro). Un libro che racconta, con molte virgolette, ma anche con le riflessioni dell’autore, la vita di cinque pubblici ministeri normali, tenendo però sullo sfondo alcune domande sulla giustizia e sulle sue disfunzioni. E anche di questo, presentati da Ferruccio De Bortoli, hanno parlato i due magistrati. Silvio Berlusconi è stato citato en passant, ma dello «scontro tra mass media, magistratura e politica» s’è parlato. Anzi sarebbe stata questa «conflittualità talmente alta» a impedire la «riflessione» nella magistratura che il procuratore aggiunto antimafia di Milano definisce «un corpo sano» in un paese a basso tasso di legalità: «Sì, in Lombardia abbiamo molti incendi dolosi, e nessuna vittima fa denuncia, o dice di aver avuto minacce. Quando scopriamo imprenditori che hanno negato l’evidenza, chiediamo l’arresto per favoreggiamento aggravato, perché o si sta con lo Stato o no. E in più, il vittimismo di alcuni nasconde un do ut des, anche l’imprenditore lombardo si fa aiutare dal criminale e ne trae vantaggi ».
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un’altra: «Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo», perché i magistrati dell’accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, «quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura». Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è «equilibrio», sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia «per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono». Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della ‘ndrangheta. Sono entrambi — e lo dicono — in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la «nausea» comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, «se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare», dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
(p. col.)