Gianfranco Angelucci, Il Sole 24 Ore 15/9/2013, 15 settembre 2013
IL BLOC NOTES DI POLDINO
Federico Fellini non aveva mai condiviso quel piglio da esploratore, quella sindrome da spedizione militare comune a tanti colleghi: disagi, notti insonni sotto le tende, cucine da campo, marce forzate, per selezionare luoghi non indispensabili alla ripresa. Dal momento che ciò che conta è lo sguardo del regista, non la latitudine geografica. Quando Francesco Rosi per Cronaca di una morte annunciata, dal bel romanzo di Gabriel Garcia Marquez, si accingeva a partire per i sopralluoghi in Sud America, cercava di dissuaderlo: «Non c’è bisogno, è uno sforzo inutile, a Roma puoi trovare tutto quello che ti serve». La Via Veneto de La dolce vita è pura invenzione di Fellini, irrintracciabile nella realtà. Dunque, il Sud America, l’Africa, il mondo intero possono essere rinvenuti anche a Roma e nei suoi dintorni, così ricca di molteplici scorci da prestarsi a ogni uso e abuso. Nel film Intervista, la location "africana" con tanto di elefanti è girata presso il lago di Fogliano a pochi chilometri da Latina. L’agguato dei pellerossa sulla cresta del canyon, era ambientato scopertamente in una forra della Val Nerina, in Umbria, dove si forma la Cascata delle Marmore. Ed è ancora nulla rispetto al passaggio del Rex di Amarcord per il quale Fellini non ha neppure messo piede fuori da Cinecittà. Gli sono bastati la piscina dello stabilimento e una grande sagoma del transatlantico dipinta su cartone e masonite dal decoratore di scena Italo Tomassi; con le finestrelle bucate e illuminate da dietro come le casette dei vecchi presepi e intorno lo sfondo nero della notte. Davanti alla prua due getti d’acqua delle pompe idrauliche per simulare i baffi dell’onda, intorno sfilacci di fumo al posto della nebbia marina, e a coronamento il muggire di una sirena che accompagnava la prodigiosa apparizione. L’avanzare della nave sull’onda era ottenuto in virtù di un espediente ottico, il "movimento indotto", cioè spostando in senso opposto la macchina da presa sui binari; un semplice carrello in movimento in direzione contraria a quella della rotta. E l’illusione era perfetta. Una sequenza emozionante, di indimenticabile verità. Cosa rimane di "vero" in tutto ciò? Null’altro se non il sentimento espresso dalla finzione. «L’unico vero realista è il visionario» non si stancava di ripetere Fellini.
La realtà diventava sempre sogno nelle mani di Fellini e il contrario. In Luci del varietà, appartiene profondamente alla poetica di Fellini il personaggio del grottesco, umanissimo, ridicolo, sognante capocomico Checco Dalmonte affidato a Peppino De Filippo. Attore amatissimo da Federico, il quale per capacità interpretative lo riteneva superiore al suo grande fratello Eduardo: e lo volle con sé nel film più apertamente satirico e beffardo della sua carriera: Le tentazioni del dottor Antonio, episodio de Il Casanova ’70. De Filippo, mestierante di genio, spiegava con chiarezza: «… Fellini si sentiva spesso attratto dalle invenzioni occasionali che il momento o il luogo o un attore o l’atmosfera artistica gli offrivano in rispetto alla sua geniale fantasia artistica a volte solo emblematica a volte spesso allegorica a volte fortemente realistica».
Leopoldo Trieste apparteneva a questa categoria di attori. Quando realizzammo lo special sul progetto "Casanova" Federico mi istruì: «Vai a intervistare Poldino, nessuno può saperne più di lui». Me lo illustrava come un infaticabile dragueur che incrociava tutta la notte lungo le strade di Roma, soprattutto periferiche, blindato nel suo "batiscafo" (Leopoldo Trieste possedeva una Citroën Ami 8, dalla forma improbabile e poco familiare al regista), finché non riusciva a imbarcare qualche irriducibile falena. E allora la sua fatica finalmente trovava sosta. «Com’era?» Si informava Federico. E Leopoldo con la sua vocina chioccia, titubante, rastremata verso l’alto, si diffondeva nella descrizione dettagliata. Come quella volta in cui la "preda", dal fisico poderoso, aveva però il difetto di possedere un occhio solo: «Ma non le stava male, anzi la rendeva un tipo, come dire, ancora più singolare…». Non a caso Federico lo scelse per interpretare lo sposino smarrito e semi cornuto dello Lo sceicco bianco; e poi il velleitario drammaturgo de I vitelloni, corteggiatore della servetta del piano di sopra. Durante la lavorazione del film a Viterbo – mi raccontava – il perfido Alberto Sordi gli aveva rubato per scherzo un taccuino segreto pieno di annotazioni e di numeri. Leopoldo era più spiritato che mai, con gli occhi fuori dalla testa, e gli altri componenti della troupe se ne domandavano la ragione: in quelle pagine erano annotate le date dei cicli mestruali di tutte le sue concupite. Senza quel calepino era perduto! Le donne erano il suo universo, la sua missione. Quante ore abbiamo trascorso a parlarne! Giovane calabrese affamato di vita, Leopoldo Trieste era salito a Roma prima della guerra in cerca di gloria e avventura. S’era laureato in glottologia, mica scherzi, e già scriveva pièces teatrali a getto continuo. Ma un giorno aveva scoperto, per caso, attaccando conversazione in un bar con la graziosa Adriana Benetti di Ferrara (la futura Teresa Venerdì di Vittorio De Sica), che a Roma esisteva un luogo pieno zeppo di ragazze che studiavano per fare cinema. Si chiamava Centro Sperimentale: una specie di recinto belante dove un lupo avrebbe potuto affondare le zanne a piacimento.
Portava i pantaloni legati in vita con lo spago ed era senza una lira in tasca, ma arrivò fin laggiù, in fondo a via Tuscolana, portando con sé qualche manoscritto. Il direttore di allora, il leggendario Francesco Pasinetti, lo accolse in vestaglia da camera accarezzando il gatto che teneva in braccio, gli accordò udienza, lesse i suoi atti unici, e decise di ammetterlo al corso di regia. Figurarsi, non sapeva neppure di che cosa si trattasse. Ma le ragazze, quante erano! «Bionde, brune, castane, con gli occhi azzurri, con gli occhi verdi, coi capelli rame, con le vesti a fiori, con le vesti a scacchi!» Da Alida Valli a Carla Del Poggio a Irasema Dilian, a Elli Parvo. Leopoldo tendeva degli agguati, si appostava dietro i voluminosi pilastri squadrati dell’architettura razionalista, nel piano interrato dove erano le sale di proiezione, e saltava loro addosso come un forsennato. Il direttore dovette redarguirlo, minacciandolo di espulsione.
Fu costretto a calmarsi. Ma il sangue ribolliva senza posa, e quando circolando sostava nel cervello, lo sospingeva a scrivere drammi che nel dopoguerra fecero parlare di lui come del nuovo genio del teatro. Esordì con Lo sceicco bianco, sottoponendosi a un provino in cui Fellini, dietro la macchina da presa, rideva piegato in due mentre l’altro recitava un sonetto petrarchesco: «Eri sì dolce e bella e piccolina, con gli occhioni sperduti di gazzella…». Fu riconfermato per I vitelloni, e la strada d’attore era ormai segnata. Il cinema, la più grande fabbrica di belle donne che un maschio potesse sognare, divenne il suo mondo.